di Alessandro Campi
Doveva essere un discorso di commiato, l’annuncio di una resa, il tanto atteso (o temuto) passo indietro nel giorno del primo sì virtuale alla decadenza. È stata invece una chiamata alle armi, una seconda discesa in campo dopo vent’anni, identica alla prima, quella originaria e gloriosa del 1994, nel messaggio, nel programma, negli obiettivi.
Diverso è stato solo il tono, più rassegnato dietro un’apparenza sempre combattiva. Sono mancati i sorrisi e gli ammiccamenti, quello sguardo fiducioso e ottimistico, che fecero all’epoca la sua fortuna politica. E si capisce facilmente perché. Il Berlusconi odierno non ha solo più anni sulle spalle, ma è una persona colpita nell’orgoglio, che si sente persino minacciata (negli affetti, nel patrimonio, nella libertà personale) da chi – a suo giudizio – non gli ha mai perdonato di essersi messo di traverso alla marcia altrimenti trionfale della sinistra, rimasta senza avversari dopo Tangentopoli.
Non è facile sviscerare i sedici minuti del messaggio berlusconiano diffuso nel tardo pomeriggio di ieri, cavandone l’autentico succo politico. Col mago della comunicazione e del marketing si sarebbe tentati di partire analizzando la scenografia e il fondale del filmato, mettendo a confronto il gesticolare del passato con quello ultimo, discettando sui giochi di luce e sull’inquadratura, sulle foto famiglia che aveva alle spalle anche in quest’occasione. E forse se ne ricaverebbe che esiste un’estetica del berlusconismo che è come immutabile. Ma dire che il Cavaliere è sempre uguale a se stesso, uno che titanicamente si sottrae allo scorrere del tempo, che reitera parole e pensieri in modo ossessivo perché solo così si radicano nella mente di chi ascolta, che ha un culto maniacale della propria immagine, a questo punto non è più nemmeno una critica, ma una constatazione irrilevante.
Tutto ciò che ieri ha detto è parso in effetti un già sentito: gli attacchi alla magistratura (formata da “impiegati pubblici non eletti”), la necessità di percorrere la via maestra del liberalismo per uscire dalla crisi economica (“meno Stato, meno burocrazia, meno tasse”), la denuncia della sinistra “del risentimento e dell’odio” (che non riuscendo a vincere le elezioni si è inventata la “giudiziaria al socialismo”). E poi il lamento per non aver mai avuto dagli italiani la maggioranza assoluta dei voti ed essere stato costretto a mediare con i suoi alleati. E le parole di fuoco contro la politica fatta dai soliti mestieranti.
Ma dietro questa sensazione di antico o famigliare qualcosa è emerso che segna un cambiamento pur nella più perfetta continuità di concetti e atteggiamenti: la convinzione, che Berlusconi non sempre ha mostrato di possedere, che la sua creatura politica sia ormai qualcosa di consolidato e irreversibile nella storia del Paese. E dunque non sparirà con la sua persona, essendo un progetto politico che ha avuto il merito di intercettare umori profondi e di dare rappresentanza e visibilità ad un pezzo consistente del Paese. Il ritorno a Forza Italia – l’appello agli italiani “che amano la libertà”, “onesti perbene e di buon senso”, affinché si mobilitino in vista delle future e comuni battaglie – in fondo racchiude un semplice convincimento: che si debba proseguire da dove si è cominciato vent’anni fa, perché quella – la rivoluzione liberale, l’unione dei moderati – era la strada giusta.
Di questo progetto Berlusconi si è riproposto come il capo, spiegando che non smetterà di essere un leader solo perché costretto da una sentenza a restare fuori dal Parlamento. Ancora non riesce ad immaginare qualcuno che un giorno possa prendere il suo posto. Ma la strada maestra è segnata per chi verrà comunque dopo di lui, e avrà costui una ricca eredità politica da raccogliere e gestire.
L’appassionato appello alla rinascita di Forza Italia, con un forte sapore di propaganda, può aver fatto pensare all’avvio di un’imminente campagna elettorale e dunque alla volontà di interrompere l’esperimento delle larghe intese. In realtà, con riferimento agli impegni politici assunti dal suo partito Berlusconi è parso conciliante e pragmatico, tutt’altro che tentato dai colpi di testa. Ha anzi annunziato che i suoi ministri presenteranno presto proposte precise e dirimenti in materia economica: per ridurre la spesa pubblica, per rilanciare produzione e consumi e per mettere fine al bombardamento fiscale a danno dei poveri cittadini. L’esecutivo Letta dunque dovrebbe andare avanti e nemmeno la sua decadenza – data ormai come un fatto inevitabile, ancorché ingiusto, anche dal diretto interessato – dovrebbe avere ripercussioni negative sul suo operato.
La lunga digressione sulla giustizia e sui suoi processi, infine, più che il pretesto per chiedere una riforma della giustizia che nell’immediato appare impossibile, è stata piuttosto l’occasione per gridare con forza la propria innocenza. Si può pensarla come si vuole sulle sue vicende giudiziarie, ma nessuno può negargli il diritto di professarsi pubblicamente non colpevole e di dichiararsi vittima di un’ingiustizia. Per la sua uscita di scena forse non ha mai immaginato applausi a scena aperta e consensi unanimi, ma nemmeno può accettare di sparire dalla vita pubblica tra sputi e insulti, sentendosi dare tutti i giorni del delinquente dai suoi implacabili avversari. Si capisce, col carattere che si ritrova, che voglia combattere sino alla fine.
Insomma per essere stato un comizio dal patibolo, il messaggio al Paese di un uomo messo drammaticamente all’angolo, è stato un discorso per niente rassegnato e tutto all’attacco, ma senza giocare allo sfascio come qualcuno immaginava. Un discorso che allontana la crisi di governo, anzi sembra farsi scudo della partecipazione dei ministri Pdl nell’esecutivo. Il discorso di un uomo ferito, ma non ancora sconfitto. In questi giorni in tanti gli hanno spiegato che si può fare politica anche stando fuori dal Parlamento. Bene, a quanto pare ha deciso di accettare la sfida.
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