di Davide Ragnolini
Il Coronavirus è, oggi, la ragion d’essere di uno ‘stato di eccezione’? Se sì, verrebbe da chiedersi: che cosa si intende veramente per ‘eccezione’, e cosa per ‘Stato’? Domande impegnative che purtroppo – e inevitabilmente – non hanno potuto trovare risposta nemmeno nelle recenti reazioni all’articolo del filosofo romano Giorgio Agamben: “Lo Stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata” (“Il Manifesto”, 26 febbraio).
Da “Micromega” a “Il Foglio”, a batter la grancassa della polemica contro la tesi di Agamben è stata l’accusa di narcisismo teoretico, di alienazione dalla percezione dei problemi comuni, di sfuggente criticismo; insomma, diremmo con un’unica, vituperata parola: di intellettualismo. Per Agamben l’emergenza del Coronavirus – o almeno fino all’altezza dello scorso febbraio – era da trattare alla luce di categorie soltanto politiche o, più ancora, bio-politiche: una sproporzionata reazione delle autorità ad un problema alimentato dalle stesse autorità per il controllo di uno ‘stato di eccezione’. Si direbbe, per usare il lessico di Foucault, una pratica di ‘governamentalità’ per ristrutturare il campo di azione dei cittadini-individui entro la dimensione coercitiva dello Stato. Ed è forse – ancora una volta – attorno al rapporto tra individuo e Stato che il dramma del Coronavirus impone un’occasione di riflessione civile e collettiva, oltre la diatriba accademica pro/anti Agamben.
L’emergenza sanitaria in atto, proclamata ufficialmente ‘pandemia’ l’11 marzo dall’Organizzazione mondiale della Sanità, ha posto in quarantena non soltanto la vita di milioni di individui, ma anche certe convinzioni politiche comunemente diffuse. Una su tutte: quella per cui la sfera pubblica dello Stato e il suo perimetro di azione siano ormai destinati a una graduale obsolescenza, cioè ad una perdita di efficacia storica e politica. Da questo punto di vista, almeno, la prospettiva intellettualistica di Agamben trova un punto di incontro nel senso comune (di molti, non di tutti). Secondo la vulgata, lo Stato moderno sarebbe un relitto amministrativo capace di essere rinnovato soltanto al prezzo di nuove crisi, o ‘stati di eccezione’, emergenze straordinarie tramite le quali viene artificiosamente rinnovata la sua centralità. Il caso italiano è significativo.
Non è soltanto la diffusione della pandemia che ha spiazzato l’opinione pubblica, ma la stessa portata dell’emergenza delle misure pubbliche adottate. A fronte di questa improvvisa crisi, si può dire che i sostenitori del movimento anti-vaccinista stiano alla sfera della sanità pubblica come i fautori dello Stato minimo a quella dell’economia politica: entrambi hanno derubricato il ruolo attivo dell’attore statale sia in materia di salute pubblica che in quella economico-amministrativa. Le tesi di Agamben sul corrente stato di eccezione sembrano condividere, almeno in parte, il medesimo stupore di fronte a questo ritorno del binomio crisi-Stato.
Alcune presunte certezze sulla trasformazione del mondo verso un ordine post-statuale oggi, in questo primo trimestre del 2020, vacillano. In luogo di una riemergente ‘eccezionalità’ dello Stato si dovrebbe forse parlare più della sua longeva ‘normalità’, del suo potere regolativo, occultato nel dibattito post-moderno. Ancora oggi l’attore statuale appare riluttante a uscire di scena e si rivela un avversario formidabile anche per i suoi molti – a destra e a sinistra – detrattori contemporanei. In realtà, la tensione concettuale (e retorica) tra Stato e società – ci informano autori che Agamben conosce bene, come Schmitt, Brunner, Conze, Koselleck, Schnur – è vecchia quanto il dibattito filosofico-politico della modernità.
La società civile o, in altri termini, l’insieme degli individui titolari di diritti di proprietà e libertà negative, non è la panacea del genere umano. Anzi, non di rado è stata rappresentata come una dimensione bestiale dei rapporti tra individui. La società civile, infatti, è stata (e continua essere) il terreno di rivendicazione di istanze molto diverse fra loro: quello della difesa di antiche consuetudini aristocratiche, di resistenza di ceti privilegiati, di autonomia fiscale di gruppi sociali abbienti, del libero mercato e dei poteri para-politici (chiese, sette, organizzazioni non governative, corporations, ecc.). Nella polemica anti-statalista questa dimensione conflittuale intrinseca alla società civile è stata non di rado censurata.
Proprio nella critica di Agamben al risorgente ‘stato di eccezione’ riecheggia non solo la critica foucaltiana contro la dimensione bio-politica dello Stato; ma anche la polemica contro la dimensione pan-politica dello Stato. In entrambi i casi, si può dire, questi pregiudizi anti-statalisti trovano radice comune in una tradizione liberale e bipartisan della nostra cultura politica occidentale.
Stiamo partecipando ad un drammatico periodo, in cui la diffusione endemica di un virus nella società ha trasformato di fatto i singoli Stati in potenziali antidoti. La stessa dicotomia società-Stato, insomma, è complessa, e non è così manichea quanto si è comunemente creduto. Anzi storicamente, come ricordava Nicola Matteucci nel suo ormai classico saggio sullo Stato moderno, la ‘società’ è stata per diversi aspetti ancorata più alla tradizione che alle forze trasformatrici della vita collettiva.
Oggi è lo stesso rinnovato protagonismo dello Stato, dalla Cina all’Italia (cioè da Stati non liberali a Stati liberali) a ricordarcelo. Nella gestione di questa crisi stiamo assistendo ad un rilancio imponente della funzione politica del settore amministrativo pubblico: Domenico Arcuri, nominato neo commissario delegato all’emergenza, già direttore della pianificazione e controllo dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), ha dichiarato recentemente che tutti i Paesi dovranno attrezzarsi prima possibile, come in guerra, di un’industria nazionale. Da parte sua, la Germania ha dichiarato di ricorrere a 500 miliardi dal KfW (Istituto di Credito per la Ricostruzione), un ente pubblico tedesco esentato dalla vigilanza della Banca Centrale Europea.
Il plauso dell’OMS alle recenti misure ‘eccezionalistiche’ dell’Italia, del resto, ci induce a credere che questo centralismo di ritorno non sia destinato ad esser semplicemente un unicum italiano (o cinese). E poi, certo, c’è la cooperazione tra gli Stati. Il virus ci ha ricordato con drammatica rapidità la fragilità degli esseri umani che, spinozianamente, non sono un “impero in un impero” nella natura (Etica, III, Praefatio), mentre gli Stati, a loro volta, sono invece immuni a morte, sonno e malattie (Trattato politico, III, 11).
Riconoscere questo fatto significa riconoscere che lo ‘stato di eccezione’ non è un pezzo museale nella nostra cultura politica post-moderna, ma una dimensione ineliminabile della stessa vita associata. Occorre però guarire da alcuni pregiudizi solipsistici che ci hanno a lungo abituato a pensare la normalità di uno ‘Stato minimo’. Per usare una bella espressione di Domenico Losurdo, occorre guarire dall’ipocondria dell’impolitico, che ci illude di pensare la nostra vita come autoimmune, la nostra condotta morale come individuale, e i rischi storici e politici della vita associata come qualcosa da cui fuggire.
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