di Alessandro Campi
La polemica sul senatore calabrese Antonio Gentile, nominato sottosegretario alle Infrastrutture e ai Lavori Pubblici, è la prima grana politica che Matteo Renzi si è trovato ad affrontare dopo la sua bruciante partenza come capo del governo. E si è conclusa nell’unico modo politicamente ragionevole: con la rinuncia all’incarico da parte del diretto interessato. Avendo chiesto a suo tempo le dimissioni del ministro Cancellieri, a causa dei rapporti d’amicizia che quest’ultima intratteneva con la famiglia Ligresti, Renzi non poteva accettare che nel suo esecutivo figurasse un signore sul quale grava il sospetto di aver fatto pressioni, seppure indirette, per bloccare l’uscita sulla stampa di una notizia poco gradita alla sua famiglia. Due pesi e due misure non si addicono a chi si è presentato sulla scena nelle vesti di un rinnovatore senza macchia e senza paura.
Ma il caso, chiuso dal punto di vista dell’esecutivo, resta aperto per Angelino Alfano e per il Nuovo centrodestra, il partito al quale attualmente appartiene Gentile (dopo aver militato nelle fila socialista ed essere stato folgorato da Berlusconi). Dinnanzi alle accuse che stavano montando sulla stampa e alle richieste di dimissioni avanzate dai grillini come da ampi settori dello stesso Partito democratico, i principali esponenti del Ncd per giorni hanno fatto quadrato intorno al loro rappresentante nel governo. Se la sono presa, secondo una tecnica oggi di gran moda, con la “macchina del fango” ed hanno adombrato un complotto ordito da oscuri nemici calabresi del senatore.
Ma Antonio Gentile, personaggio sino a pochi giorni fa sconosciuto alle cronache nazionali ovvero ricordato solo per aver chiesto il Premio Nobel per la pace a Silvio Berlusconi quando stava in Forza Italia, non è un personaggio al quale si addice – specie ora che si è dovuto controvoglia dimettere – il ruolo della vittima incolpevole di una maliziosa campagna di stampa. È infatti l’esponente di un potente clan politico, da anni ben radicato nel cosentino, che sembra essersi dato, nei suoi numerosi rami, una sola regola: il potere sotto qualunque bandiera, la sua occupazione scientifica ad ogni livello, la difesa prima ogni altra cosa degli interessi di famiglia e di quelli dei propri clientes.
Beninteso, non si può impedire a nessuno di fare politica saltando da un partito all’altro. E non c’è legge che possa vietare ai membri di uno stesso casato di annidarsi nelle assemblee rappresentative, nei posti di comando e nei pubblici uffici. Il clientelismo non è necessariamente un reato. La gestione del consenso sul territorio risponde ad una tecnica politica che non sempre sfocia nell’illegalità. Si può dunque capire perché il Nuovo centrodestra lo abbia accolto a braccia aperte tra le sue fila.
Ma se è chiaro che Gentile è (insieme ai suoi parenti) un classico cacicco o notabile, come nel Meridione d’Italia ne sono sempre esistiti, meno chiaro comincia ad apparire il senso dell’operazione politica che ha portato Alfano e un gruppo di parlamentari di Forza Italia a staccarsi dalla casa madre e a fondare un nuovo partito. La nascita del Nuovo centrodestra fu presentata a suo tempo, dai diretti interessati, come un tentativo finalizzato a superare il berlusconismo (e la sua concezione padronale della politica) e a dare vita ad un fronte liberal-riformista in grado di meglio rappresentare l’elettorato moderato. C’era anche il desiderio di smetterla con un certo estremismo populista e con l’accusa rivolta al mondo berlusconiano di mescolare l’interesse pubblico con gli affari privati.
A distanza di mesi – dopo che l’unica idea strategica del Ncd è apparsa quella di resistere al governo a qualunque costo – si ha l’impressione che la sua nascita sia stata piuttosto il frutto di una manovra di Palazzo, di un’operazione nata tutta all’interno del Parlamento, senza alcuna base nella società (come del resto sembrano confermare i sondaggi), per realizzare la quale non si è andati troppo per il sottile nella scelta dei compagni di strada. Ne è venuto fuori un partito, come hanno dimostrato prima il caso dell’ex ministro De Girolamo e ora il caso dell’ex sottosegretario Gentile, che ha un forte baricentro nel Sud d’Italia, dove ha raccolto molti dei suoi parlamentari e dirigenti, e nel quale sembra prevalere una visione della politica (un misto di pragmatismo, affarismo e arroganza da potere) che col riformismo e il moderatismo (non parliamo poi del liberalismo) ha davvero poco a che vedere. Lasciamo perdere poi la pretesa di ergersi a partito che ingaggia grandi battaglia sui valori e sugli ideali di libertà.
La sfida di Alfano doveva essere una risposta, motivata anche da ragioni generazionali e nel segno di un radicale rinnovamento, a quella lanciata da Renzi nel campo del centrosinistra. Comincia a farsi forte il sospetto che ci si volesse semplicemente liberare dalla tutela asfissiante del Cavaliere per provare a gestire il potere in prima persona. Nulla di male, se questo era l’intendimento, ma allora converrebbe smetterla con gli annunci di una nuova “rivoluzione liberale” o proporsi come gli alfieri di un nuovo moderatismo. Avendo nei proprio ranghi uno come Gentile?
* Apparso come editoriale sul “Mattino” di Napoli del 4 marzo 2014.
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