di Saro Freni
La recente scoppola elettorale ha fatto “abbassare la cresta” agli uomini di partito. Adesso è tutto un prostrarsi dinanzi alle ragioni dei grillini e del popolo mugugnante, pur distinguendo tra le giuste recriminazioni e gli eccessi da comizio, tra il leader scalmanato e i militanti “bravi guaglioni”, tra l’antipolitica e l’antipartitocrazia, tra l’errore e l’errante; e cavillando a più non posso, come da tradizione, su chi ha perso e chi ha perso-perso, consolandosi a vicenda, perché – in fondo – mal comune mezzo gaudio.
Così, è tutto un fiorire di promesse e buoni propositi: si annunciano autoriforme epocali, grandi pulizie morali, si ostenta un’aria contrita e sinceramente pentita, si giura e spergiura che d’ora in poi sarà tutta un’altra musica perché la lezione è stata compresa.
Ma il treno, sono propenso a credere, è passato da un pezzo.
E pensare che, fino a qualche settimana fa, le difficoltà del governo tecnico sembravano preludere ad un ritorno in pompa magna della politica professionale. Le vecchie facce di un’oligarchia senza tempo erano di nuovo lì a pontificare, a dar consigli, riprendendo l’antica baldanza: noi sì – sembravano dire – che sapremmo cosa fare per tirarvi fuori dai guai.
Schiacciati dalla tecnocrazia, da un lato, e dalla protesta, dall’altro, esibivano come una carta vincente la loro esperienza ultradecennale fatta di tessere e congressi, militanza e passione, in un continuo rimando retrospettivo alle loro benemerenze che risultava melenso e retorico.
La spocchia era quella delle grandi occasioni. La politica, facevano capire con aria da uomini di mondo, è un’arte raffinata, di cui solo noi conosciamo segreti e malizie. Questi, i professori, sono buoni per far chiacchiere ai convegni. Non conoscono le nostre capacità di guida, l’abilità sopraffina nel mediare tra posizioni diverse, tra interessi divergenti, tra fazioni irrimediabilmente ostili.
Le amministrative, all’apparenza, hanno fatto giustizia di questa presunzione.
E gli avversari, gli uomini di Grillo, sono all’altezza della situazione? Per giudicarli, bisogna aspettare un po’. Le recenti performance televisive di uno dei candidati più in vista hanno lasciato molto a desiderare, tanto da indurre il comico a sconsigliare caldamente ai suoi la partecipazione ai talk show. Inesperienza, sprovvedutezza, mancanza di preparazione politica? Difficile dire. D’altra parte, i nuovi venuti non hanno trionfato solo per meriti propri, ma anche, forse principalmente, per demeriti altrui.
A questo va aggiunta una considerazione. Il governo sembra un po’ nei pasticci, ha commesso qualche errore, adesso cerca di riprendere in mano la situazione. Ma è l’unico tra i tre soggetti politicamente rilevanti di questo periodo (gli altri sono i partiti e la protesta) che cerca di legittimare le sue scelte su un piano razionale e sull’asse giusto-sbagliato. Posso ingannarmi, ma mi pare che la partitocrazia e l’antipartitocrazia facciano a gara sul terreno, più vantaggioso per la seconda, del populismo. I candidati “cinque stelle” si presentano come uomini qualunque, vicini al popolo, che girano a piedi e tengono circolo nei mercati. I loro competitori si giustificano dicendo di stare anche loro in mezzo alla gente. E figuriamoci: pure i peggiori despoti del Novecento si facevano fotografare in mezzo alla gente, stringevano le mani, abbracciavano le vegliarde e baciavano i pargoli. Stare in mezzo alla gente non è, di per sé, garanzia di buona politica. Andare a parlare con gli elettori è cosa utile. Ma il bagno di folla non salva l’anima del politico, e non lo redime da ogni peccato.
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