di Damiano Palano
Nel 1954 l’allora ventisettenne Henry Kissinger discusse all’Università di Harvard la propria tesi di laurea, dal titolo quantomeno ambizioso The Meaning of History. Probabilmente fu Carl Joachim Friedrich, uno dei principali esponenti della scienza politica postbellica, a indirizzare l’allievo verso un tema così affascinante come il “significato della storia”. Alla base di quella scelta stava la convinzione che i meccanismi della trasformazione storica andassero ricercati nello scontro tra la necessità e la libertà, intesa come la spinta che induce l’essere umano a un costante miglioramento. Kissinger si sarebbe però rivelato molto più scettico del maestro. E forse per questo alla conclusione del proprio lavoro scrisse: “La generazione di Buchenwald e dei campi di lavoro siberiani non può parlare con lo stesso ottimismo dei padri”.
Nel suo ultimo lavoro, Ordine mondiale (Mondadori, pp. 405, euro 28.00), l’ormai ultranovantenne Kissinger torna con autoironia a quei giorni lontani, in cui era stato “tanto sconsiderato” da pronunciarsi sul “significato della storia”. “Oggi”, scrive, “so che il problema della storia è una cosa da scoprire, non da proclamare”. Il libro di Kissinger può d’altronde essere considerato come il risultato di un’intera vita di studio, ma anche della lunga attività di consulente, culminata con la nomina a Segretario di Stato durante l’amministrazione Nixon. In Ordine mondiale si possono infatti ritrovare le tracce del fascino che esercitarono sullo studente di Harvard gli scritti di Spengler e Toynbee, in particolare per l’idea che ciascuna civiltà esprima uno specifico sistema internazionale. Ma soprattutto si può ravvisare ancora una volta lo sguardo con cui Kissinger ha sempre considerato la costruzione di un ordine internazionale, frutto di un precario rapporto fra legittimità e potere. L’assetto che abbiamo conosciuto, ci ricorda l’ex Segretario di Stato di Nixon, è nato per molti versi nel 1648 in Vestfalia. Progressivamente si è esteso a tutto il pianeta, ma oggi le sue basi sono sempre più fragili. L’emergere di nuovi protagonisti cambia infatti radicalmente la distribuzione del potere, mettendo in crisi anche la consolidata logica dell’equilibrio. Ma, al tempo stesso, le nuove potenze hanno spesso visioni molto diverse della legittimità (e dunque dei valori da difendere). E per questo il compito principale delle leadership politiche di domani consisterà nel costruire un nuovo ordine, un ordine effettivamente “mondiale”, capace di trovare un bilanciamento nel sempre problematico rapporto tra legittimità e potere.
Nelle considerazioni di Kissinger si può sempre intravedere un velo di pessimismo ‘realista’. In questo caso i motivi di preoccupazione non giungono però dall’arena internazionale, ma dalla dimensione interna. Il novantenne analista scorge infatti una minaccia rilevante nelle conseguenze della rivoluzione digitale. E non si riferisce solo al fatto che il cyberspazio sarà sempre di più il terreno decisivo dei nuovi conflitti. Allude piuttosto alle implicazioni distruttive che l’accumulazione di dati può avere sulle capacità di valutazione dei leader. L’enorme quantità di informazioni di cui ciascuno può disporre e la stessa ‘personalizzazione’ dei flussi informativi rischiano di dissolvere la memoria storica e la capacità di giudizio. I politici tendono così a compiere le loro scelte guardando al consenso del brevissimo periodo, col risultato che la diplomazia si separa nettamente dalla strategia. Ed è allora per questo che Kissinger finisce col ritrovare la domanda forse più insidiosa sul nostro prossimo futuro nei vecchi versi di Thomas S. Eliot: “Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo? / Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?”
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