di Sofia Ventura*

La legge elettorale torna nuovamente nell’agenda politica e a ciò non è certo estranea l’iniziativa referendaria che si propone di ripristinare il sistema vigente prima del 2005, un maggioritario corretto. Per l’inizio del prossimo anno è attesa la sentenza della Corte Costituzionale che dovrà decidere della legittimità dei quesiti e i partiti guardano con apprensione a quel momento, perché sanno che una legge prevalentemente maggioritaria basata sui collegi nominali, subìta e non voluta, li costringerebbe a riorganizzarsi senza potere prevedere con certezza gli esiti nella nuova e confusa situazione politica.

Pur facendo parte del Comitato promotore dei referendum, non trovo scandaloso che i partiti tentino di mettere mano alle regole elettorali. Ciò che, piuttosto, mi pare preoccupante è il modo di procedere che trapela dalle cronache giornalistiche e le conseguenze che da esso possono derivarne.

La policy istituzionale costituisce un ambito rispetto al quale gli attori politici mantengono una notevole attenzione poiché le regole del gioco politico-istituzionale ne condizionano forza e possibilità di azione (talvolta la stessa esistenza).  Proprio per questo è ragionevole aspettarsi che i loro obiettivi siano elaborati a partire da considerazioni dagli orizzonti limitati, di breve periodo, anche se visioni di medio e lungo periodo non necessariamente saranno scartate e questo dipende anche dalla qualità del ceto politico-partitico e dalla sua capacità di valutare le proprie convenienze anche in una prospettiva futura, nonché di porre in relazione il proprio ruolo potenziale con possibili trasformazioni sistemiche.  Un esempio concreto ce lo offre la decisione di costruire un sistema proporzionale fortemente disrappresentativo, grazie alla previsione di collegi di piccole dimensioni, presa dai due maggiori partiti dell’epoca (Ucd e Psoe) nella Spagna del 1977, da poco uscita dal franchismo e impegnata a costruire la nuova democrazia. I due partiti misero a punto un sistema che li avrebbe resi protagonisti della politica del loro paese e così facendo diedero alla Spagna un assetto partitico semplificato e stabile che avrebbe concorso fortemente alla stabilità e all’efficienza del sistema politico. In altre parole, elaborarono un obiettivo ‘particolare’ (operare per essere in grado di assumersi direttamente e da soli la responsabilità del governo del paese) che se raggiunto avrebbe – come ebbe – prodotto una ricaduta positiva sull’interesse generale (avere governi omogenei e stabili).  La vittoria immediata non costituì allora la prima preferenza dei due attori partitici, la prima preferenza fu quella di creare un sistema dove poter essere protagonisti in tempi ragionevolmente vicini.

Tornando all’attualità italiana, vediamo invece che gli obiettivi dei maggiori partiti sono ambigui e confusi e tutt’atro che coraggiosi e lungimiranti.  Come si diceva, oggi sono in corso trattative più o meno segrete per elaborare una nuova legge elettorale, ma in un contesto dove il fine è poco chiaro. Soprattutto, l’impressione è che con questa legge si vogliano mettere d’accordo esigenze e interessi contrastanti di partiti grandi e piccoli, anche perché i grandi sembrano incapaci di pensare una politica che non sia quella delle alleanze, incapaci, cioè, di pensare che con il loro peso potrebbero mettere in moto trasformazioni importanti del sistema.

Qua e là si legge dei tentativi di “inciucio” tra Pd e Pdl. Beh, quanto sarebbe salutare questo “inciucio” se si muovesse in una prospettiva alta, se i due maggiori partiti avessero il coraggio di pensarsi come forze potenzialmente in grado di guidare il paese in un governo monopartitico, se riuscissero a liberarsi dall’ossessione della vittoria immediata e dalla conseguente necessità di raccattare alleati purchessia: insieme potrebbero proporre e approvare (i numeri ci sono) una legge elettorale in grado di ridurre drasticamente la frammentazione e di sconfiggere una volta per tutte il sogno dei proporzionalisti di costruire un centro in grado di ricattare di volta in volta le formazioni maggiori.

La legge elettorale attorno alla quale oggi si ragiona è una legge proporzionale con collegi di piccole dimensioni, sul modello spagnolo.  Pur essendo un tale sistema piuttosto disrappresentativo (favorisce i partiti grandi e penalizza quelli piccoli), la soluzione non convince. Non convince perché, essendo essa chiaramente pensata come  compromesso con le forze più proporzionaliste, è prevedibile non solo che alla fine assuma una forma piuttosto annacquata, ma anche che come punto di equilibrio risulti altamente instabile e sempre aperta a nuovi interventi ulteriormente proporzionalizzanti.  Ma oltre a ciò, vale un’ulteriore considerazione.  In Italia le due forze maggiori al momento non sono in grado di raccogliere un consenso che le porti ad una maggioranza assoluta dei seggi o ad una maggioranza relativa comunque molto elevata che permetta loro di essere dominanti in una coalizione minima ed omogenea, anche con un sistema che le sovrarappresenti in modo sensibile, come potrebbe essere quello spagnolo. Perché ciò possa invece accadere sarebbe necessario un sistema elettorale che, da un lato, garantisca la “costruzione” di maggioranze – come avviene in altre grandi democrazie – con una netta sovrarappresentazione dei partiti maggiori, come solo i meccanismi maggioritari (a uno o a due turni) sono in grado di fare,  dall’altro che favorisca processi di riaggregazione delle forze politiche portando a grandi partiti “contenitori”.  L’esperienza della Francia della Quinta Repubblica costituisce a tal proposito un esempio illuminante e per una riflessione più approfondita mi permetto di rinviare all’analisi sugli effetti del maggioritario a doppio turno sul sistema partitico proposta insieme a Gianfranco  Pasquino in un volume del 2008  (G. Pasquino, S. Ventura – a cura di – Una splendida cinquantenne: la Quinta Repubblica francese, Il Mulino).

Per arrivare a simili proposte, ad esempio un maggioritario a doppio turno o un maggioritario con voto alternativo sul modello australiano – che ad avviso di chi scrive, e di molti altri studiosi e osservatori, costituirebbero la soluzione più proficua nella situazione italiana – è però necessario, come si diceva, coraggio. Pd e Pdl dovrebbero avere innanzitutto il coraggio di sentire sbraitare i partiti minori (i “nanetti”, per dirla con Sartori) del centro e delle ali estreme. E soprattutto il coraggio di trarre da un passo simile la logica conseguenza: presentarsi da soli alle elezioni (un accordo in questo senso sarebbe ragionevole anche rimanendo vigente il Porcellum).

Purtroppo, però, la caratura dei nostri leader politici è quella che conosciamo ed è forse illusorio sperare che siano in grado di intraprendere una strada del genere ed è probabile che alla fine siano preferiti passi piccoli e disegni mediocri, molto più rassicuranti.  Per questo la spada di Damocle del referendum rimane un fattore essenziale per realizzare il cambiamento, pur non perdendo la speranza che magicamente e inaspettatamente alla fine Alfano e Bersani possano regalarci  un magnifico “inciucio”.

* Direttore del Dipartimento Sistemi di governo e Politiche pubbliche dell’Istituto di Politica

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