di Domenico Letizia
Mai come in questi ultimi tempi il termine e il percorso della finanza è stato alla ribalta sui notiziari e tra le fila dell’informazione. Generalmente è diffusa l’opinione dell’illusione finanziaria intesa come sistema di grovigli fiscali internazionali e bancari, lontani dall’economia dei comuni cittadini, ma che su quest’ultimi ricade nel far pagare perdite e debiti.
Già agli inizi del Novecento un’economista, Amilcare Puviani, aveva previsto che l’illusione finanziaria si riscontrava nell’uomo di stato, burocrate o tecnico, che altera la moneta, che vende uffici pubblici, che contrae presiti e non può sempre dirsi che ogni forma d’illusione abbia per presupposto necessario il bisogno di ottenere denaro. La proprietà demaniale, ad esempio, per se stessa, provoca errori intorno alla vera quantità di ricchezza necessaria al fabbisogno dello stato. Analogo discorso per i milioni di fatti amministrativi che presentano tali difficoltà e complessità da ingenerare molte illusioni sullo stato di equilibrio fra le entrare e le spese.
La più grossa illusione, messa su a tavolino dall’oligarchia finanziaria e statuale, è la libertà industriale. Tale illusione consiste nella forza che eccita gli imprenditori, in concorrenza tra loro, a ridurre il costo al minimo, ma dà modo all’imposta di includersi nel prezzo dei prodotti, senza che questo realmente si elevi. Il sistema è sostenuto dall’esistenza di imposte differenziate ed è in forza di questo che le imposte possono essere spalmate assai più agevolmente e confondersi nei prezzi. Da ciò si scorge l’illusione e le influenze economiche, lo sviluppo della ricchezza di un paese costituisce una necessaria premessa al moltiplicarsi e differenziarsi delle imposte.
Le indagini sul fenomeno finanziario conducono a ritenere che tutte le cause immediate all’aumento delle spese pubbliche si possono riassumerne nell’incremento e nello stendimento delle funzioni dello stato. Come ha sottolineato Puviani, lo sviluppo intensivo delle funzioni dello stato dipende da cause economiche, ossia dal capitale. Il bisogno dei grandi capitalisti di grandi imprese in cui investire crea la necessità di allargare il mercato interno e di dar vita ad uno stato assai potente, capace di costruire strade e canali e di proteggere la grande impresa. Senonché, come analizza Puviani agli inizi del Novecento, l’espandersi delle funzioni dello stato e più in particolare l’aumento delle spese pubbliche ha concorso enormemente a restringere gli impieghi del capitale produttivo, ad esempio sottraendo alla coltivazione larghe zone di terreno o avversando quelle generali migliorie agrarie che avrebbero per effetto la diminuzione del prezzo delle derrate.
Non è agli interessi generali che in questi casi la classe capitalista ha riguardo. La folla di grandi capitalisti, grazie al sistema statuale, ha innanzi a se due strade per investire: l’una nelle imprese, troppo rischiosa per la concorrenza sul mercato, per la crisi, per i ribassi dei prezzi; l’altra nelle spese pubbliche che invece presentano un impiego facile e sicuro di capitali che con gli appalti e con i giochi di borsa creano lucri sostanziali. Tale sistema, di volta in volta, soprattutto dall’età contemporanea, ha portato a chiedere provvedimenti empirici attraverso denaro pubblico. Potremmo dire, per concludere, che la concorrenza non è mai esistita ove aveva necessità di esistere più che altrove, cioè nella grande impresa. Ecco perché il libero mercato è inesistente e quella di oggi è una gigantesca illusione finanziaria che lavora solo per screditare quel mercato che in pratica non esiste.
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