di Fabio Massimo Nicosia

La recente ondata di attentati ha fatto dire al capo della polizia Antonio Manganelli che, oggi, la vera minaccia terroristica viene dagli anarchici, e, in particolare, dalla Federazione Anarchica Informale che ha rivendicato la “gambizzazione” di Roberto Adinolfi, manager dell’Ansaldo.

Trattando del tema, i mass-media a volte utilizzano la dizione anarco-insurrezionalisti, a volte si limitano a chiamare “anarchici” questi spietati e pericolosi terroristi. Sicché si impone di far chiarezza, anche alla luce della necessità di rivedere l’antico e irrisolto rapporto tra anarchismo e ricorso alla violenza.

Val forse la pena in proposito di prendere le mosse dal programma anarchico vergato da Errico Malatesta nel 1919, che è tuttora il programma ufficiale dell’altra e “vera” FAI, la Federazione Anarchica Italiana.

Orbene, in quel testo molto ispirato, a un certo punto si legge: “lasciando da parte l’esperienza storica (la quale dimostra che mai una classe privilegiata si è spogliata, in tutto o in parte, dei suoi privilegi, e mai un governo ha abbandonato il potere se non vi è stato obbligato dalla forza o dalla paura della forza), bastano i fatti contemporanei per convincere chiunque che la borghesia ed i governi intendono impiegare la forza materiale per difendersi, non solo contro l’espropriazione totale, ma anche contro le più piccole pretese popolari, e son pronti sempre alle più atroci persecuzioni, ai più sanguinosi massacri. Al popolo che vuole emanciparsi non resta altra via che quella di opporre la forza alla forza.”

Si tratta come si vede di un programma rivoluzionario, del quale non vengono però precisati i tempi di attuazione. Ogni giorno potrebbe essere quello buono, purché le masse degli sfruttati abbiano maturato il senso della propria condizione e siano pronte al gran salto.

L’uso della forza non è cioè escluso, a condizione che sussista un movimento rivoluzionario di massa, in grado di opporre la propria forza a quella dello Stato e delle classi sfruttatrici.

Ma chi decide, in assenza di avanguardia rivoluzionaria di stampo leninista, quando sia venuto il momento buono? Chiunque può avere un’opinione diversa al riguardo, dando vita a una duplice forma di opportunismo.

Il rischio di una simile impostazione è quindi di produrre due effetti contrapposti: quello di consentire a chiunque, nel movimento, di stabilire che i tempi sono maturi, e quello di consentire ad altri di rinviare sine die il momento dell’esplosione rivoluzionaria, anche perché, come diceva Malatesta, l’anarchia è una forma di amore, e quindi il ricorso alla forza va centellinato.

I primi finiscono con il confondersi con i fautori della “propaganda del fatto”, la strategia dell’attentato fine a sé stesso (si pensi a Gaetano Bresci), ma finalizzato anche a smuovere le masse inerti sull’emozione dell’evento. I secondi tendono a “democratizzarsi”, ad accettare la nonviolenza come prassi se non come teoria (loro rifiutano Tolstoj e preferiscono definirsi anti-violenti, e pronti anche loro a prendere in mano le armi, in teoria, contro nemici ben più pericolosi di un singolo dirigente d’azienda, e fanno l’esempio della guerra di Spagna o della resistenza italiana).

In mezzo tra questi due estremi stanno coloro i quali, come i Black Block, sono fautori e attori degli scontri di piazza e del vandalismo, ritenuti inadeguati tanto dai primi (gl’insurrezionalisti) quanto dai secondi, i democratici, che li considerano dei violentisti controproducenti.

A tutti costoro, che provengono da costole diverse dell’anarchismo classico, si aggiungono, sempre più numerosi, gli anarchici teorici e riformisti, sicuramente nonviolenti, che scelgono di militare nei partiti, soprattutto il partito radicale, e che non disdegnano di civettare con l’anarco-capitalismo e la teoria del mercato, come peraltro capita anche ad autori non riconducibile oggi ad alcun partito.

Insomma, quando si parla di anarchici, occorre fare molta attenzione per non ingenerare confusioni e maneggiare con cura prima dell’uso del termine.

 

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