di Damiano Palano – 21.04.2015

9788833925356Si possono nutrire davvero pochi dubbi sul fatto che la parola «globalizzazione» abbia segnato negli anni Novanta del secolo scorso il dibattito in quasi ogni ramo delle scienze sociali. Rilette a quasi vent’anni di distanza, molte delle diagnosi allora formulate non possono che apparire quantomeno piuttosto ingenue, soprattutto quando facevano discendere dalla «globalizzazione» una serie di radicali conseguenze, come per esempio la «fine dello Stato», la vittoria dell’economia sulla politica, l’obsolescenza della guerra. Tutte convinzioni, a ben guardare, tutt’altro che nuove, ma che dopo la fine della Guerra fredda trovarono nuovo alimento. Dopo l’11 settembre 2001, molti di quei sogni si sono infranti contro una realtà ben diversa: una realtà che ha riportato in prima linea gli Stati, la forza militare, la brutalità della guerra. E qualche anno dopo la crisi globale ha messo fine anche all’idea di un mercato capace di produrre ‘spontaneamente’ un ordine sociale, senza alcuna necessità di interventi e sostegni da parte degli Stati.

A più di un quarto di secolo dalla fatidica caduta del Muro berlinese sembra ancora molto lontana la conquista di uno stabile ordine mondiale, e anche per questo è tutt’altro che agevole capire in quali direzioni si indirizzerà la trasformazione dello Stato nei prossimi decenni. Un contributo interessante alla comprensione di questi processi è offerto dal volumetto Stato di Massimo Terni (Bollati Boringhieri, pp. 121, euro 9.00), in cui il principale protagonista della politica moderna viene indagato da diverse prospettive, ma soprattutto con l’obiettivo di capire dove conduca la metamorfosi in atto.

Le tesi principali del discorso di Terni sono due. La prima è che oggi siamo sempre più dinanzi a uno «Stato disaggregato», che in sostanza scaturisce dallo smembramento di pezzi del vecchio Stato-nazione. Come scrive Terni, lo Stato disaggregato risulta composto «da una costellazione di pezzi istituzionali del suo stesso apparato burocratico, investiti di una sorta di delega di fatto, incompatibile con le caratteristiche della stessa sovranità»; ognuno di questi pezzi «si occupa di settori specializzati, quali la finanza e il commercio, la produzione e gestione dell’energia, la giustizia, l’esercito e l’intelligence, e la difesa dell’ambiente» (p. 45). Il dato di fondo, in cui questa nuova figura dello Stato prende forma, è però soprattutto l’emergere di «una nuova politica di cooperazione mondiale di tutti con tutti, e non più di tutti contro tutti» (p. 47). La seconda tesi di Terni è invece molto più radicale, perché sembra suggerire non solo una «dispersione del ‘politico’ nel labirintico e deregolato mondo dell’economia globale» (p. 59), ma anche un sostanziale superamento del ‘politico’, o quantomeno di ciò che – a partire da Carl Schmitt – si considera come specifico del fenomeno ‘politico’, e cioè il conflitto, la guerra, la contrapposizione (sempre tendenzialmente violenta). Da questo punto di vista, Terni non esita a esplicitare una tesi che riecheggia le vecchie convinzioni di Norman Angell sulla «grande illusione»: «Stiamo arrivando a una svolta. Se vogliamo demarcare un prima rispetto a un dopo, possiamo raccontare una storia di questo tipo: fino a oggi la vicenda dell’umanità è stata fatta da uomini che hanno affidato la possibilità di una loro convivenza all’accettazione della sovranità di uno Stato. L’idea di fondo era quella hobbesiana della pulsione naturale dell’uomo al conflitto e della conseguente neutralizzazione della mutua violenza che ne deriva con la violenza coercitiva di un potere supremo da tutti condiviso. Questo è stato il prima. Il dopo è in una fase di preparazione. Forse è ora diventato possibile pensare a uno ‘stare insieme’ degli esseri umani sulla base di una concezione del tutto diversa della natura dell’uomo e delle sue relazioni. Si tratta di accantonare l’indimostrata metafisica di uno stato di natura simile a una giungla di belve feroci e la conseguente ipotesi di una originaria natura malvagia dell’uomo. […] Ma Hobbes ha fatto il suo tempo, e insieme a lui la fantasia letteraria del suo uomo della natura» (pp. 111-113).

Questa critica dei fondamenti della visione realistica della natura umana – una critica di cui sarebbe ingenuo trascurare gli elementi di forza – si conclude però con una visione che certo non potrà apparire convincente a molti, nella misura in cui ritiene che il mercato – come sfera capace di mettere pacificamente in relazione gli esseri umani – sia in grado di superare definitivamente lo Stato, la guerra e, in fondo, la stessa politica: «Se tutto questo è vero», scrive infatti Terni, «si può pensare alla comunità internazionale, di cui ciascuno di noi è un virtuale cittadino, come a una società senza Stato. O meglio, come a un’informale cosmopolis postmoderna, coincidente con un mercato globale, che è di per sé autore di una capillare e diffusa integrazione sociale. Una realtà in cui, in un futuro non così lontano, si dovrebbe poter fare a meno del classico dispositivo della sovranità e della metafora dello Stato-nave, a suo tempo proposta da Platone e poi riproposta da Bodin» (p. 115).

Anche se l’idea dello «Stato disaggregato» appare interessante, e meritevole di approfondimento, è scontato che proprio la tesi sul tramonto del ‘politico’ debba lasciare piuttosto perplessi quantomeno coloro che – pur senza celebrare lo Stato-potenza – continuano a ritrovare un nucleo di verità nelle vecchie tesi del realismo politico. E, d’altro canto, anche se il mondo di oggi appare davvero molto simile a quel «nuovo Medio Evo» di cui scrisse Hedley Bull negli anni Settanta, le parole di Terni non possono non suonare almeno un po’ troppo in anticipo rispetto alla realtà dei conflitti che crescono attorno al Vecchio continente, raggiungendo vette di violenza raccapriccianti. Un rischio di queste letture è naturalmente quello di sottovalutare i rischi effettivi, e di immaginare il futuro in modo del tutto irrealistico. Ma un rischio forse ancora più rilevante è di suggerire una chiave interpretativa destinata a produrre risultati esattamente opposti rispetto a quelli che si auspicano. Certo, se si pensa che tutti gli Stati pensino solo ad accrescere la loro potenza, si finisce sempre col preparare una guerra. Ma se si pensa che il mondo sia destinato a diventare pacifico, che possa essere governato solo da relazioni commerciali, che il ‘politico’ sia definitivamente superato, che l’uomo delle foreste di Hobbes sia solo un relitto del passato, il rischio è invece di interpretare ogni conflitto reale che si presenta sulla scena come una riemersione del passato, come l’escrescenza di un retaggio arcaico, come una malattia che deve essere curata con strumenti adeguati. E, allora, la conseguenza è di considerare i nemici come ‘eccezioni’ sulla via del progresso, come ‘folli’ che nulla hanno da spartire con il consorzio civile. Col risultato che diventa quasi inevitabile imbarcarsi, ancora una volta, nell’«ultima guerra del genere umano».

 

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