di Danilo Breschi
Ci si deve avventurare per campi e campielli, calli e callette. Siamo dunque a Venezia e, costeggiando un canale, si svolta obbligatoriamente a sinistra e nell’angolo di un angolo retto, ancora sulla sinistra, si piomba nel Palazzo Venier dei Leoni dove ha sede permanente la Peggy Guggenheim Collection. Il visitatore, tra lo stupito e il frastornato dalla subitanea apparizione laterale, trova qui l’arte d’avanguardia dell’intero secolo scorso. Da Braque a Morandi, da Picasso a Appel, da Kandinsky a Pollock, da Moore a Giacometti (e l’elenco potrebbe continuare), è possibile visualizzare la traiettoria compiuta dalle arti figurative nel corso di circa settant’anni. Dividendo in due settori la mostra, e percorrendo così un ideale cammino da Pablo Picasso a Karel Appel, si assiste alla consunzione del gesto artistico, alla sua perdita di significato originale e di forza evocativa. Ciò che era nato come rivoluzione delle forme espressive, per una ancor più incisiva e perturbante significanza ed espressività, muore nella ripetizione della trasgressione che, come si sa, non può che diventare norma. Una norma ancor più ottusa e opprimente perché si veste dei panni pacchiani e stancamente eccentrici di chi vuole essere l’avanguardia dell’avanguardia, la negazione della negazione, l’incarnazione annichilita dello spirito di tempi altrettanto annichiliti. Eppure la vera rivoluzione è quella che si fa tradizione, suo malgrado ovviamente, per cui Picasso, Boccioni, Kandinsky, Max Ernst, Mirò si trovano a fare gesti che hanno il privilegio dell’originalità e il marchio del desiderio di dire ancora qualcosa con il segno, dunque con l’arte. Magari diranno la negazione di quello stesso segno, ma lo faranno invocando le Muse appropriate. D’altronde, “l’antica dea Afrodite non ha mai avuto quell’imperiosa unità – sogno di un’identità certa e rassicurante – che gli uomini deboli, suoi pavidi nemici, le hanno attribuito proprio per screditare e irridere la sua forza utopica di fronte alla tragedia della vita”. Così scriveva il veneziano Stefano Zecchi nel suo saggio di “militanza artistica”, non a caso intitolato L’Artista armato (1998), ricordandoci pure che la divinità greca del bello si accompagnò non solo all’aitante Ares, ma persino al deforme Efesto che addirittura sposò, nonostante fosse il più brutto degli dèi.
Pertanto è sempre e comunque la bellezza che occorre chiamare in causa, sia pure per dar forma al suo opposto, la bruttezza. Quest’ultima può essere allestita solo come monito circa la prospettiva cui può condurre un esilio protratto della (e dalla) bellezza. Come scrisse Jean-Paul Sartre a proposito dell’opera del grande veneziano Jacopo Robusti, meglio noto come il Tintoretto: “la bruttezza è una profezia: c’è in essa un certo estremismo che vuole portare la negazione sino all’orrore”. Al contrario, proseguiva Sartre, “il Bello appare indistruttibile; la sua immagine sacra ci protegge: finché resterà tra di noi la catastrofe non accadrà”. E chiosava: “così è per Venezia: la città comincia a temere di sprofondare nella melma della laguna; immagina di salvarsi attraverso la Bellezza, questa suprema leggerezza [….]”(Tintoretto o il sequestrato di Venezia, trad. it., 2005). Finché questo accade l’arte è viva, più viva che mai. Il gesto artistico ha un senso e vuol dare un senso, perfino quello della fine di ogni senso, sotto forma di monito, di allarme, magari anche gioioso ma sempre all’interno di un gesto controllato, posseduto. Ma poi, dopo Duchamp, cosa succede? L’irripetibile diventa brevetto che assicura all’avanguardia una posizione artistica ma in realtà finisce per essere un pretesto, per non cercare strade nuove che possono invece nascere, ammesso e non concesso che sia tempo che nascano, soltanto dal tormentato e mai soddisfatto confronto-scontro con la tradizione.
Al di là dell’intuizione tecnica, un Jackson Pollock segnala già l’inversione del rapporto tra forma e contenuto. Il contenuto cresce a dismisura fino a staccarsi come escrescenza troppo grossa e ormai insostenibile da un segno grafico che, per distinguersi e dire di chi è e che cosa è, ha bisogno di un apparato critico di note e appendici. Un corredo critico, zeppo di concetti e dotti riferimenti, così grande che l’opera diventa di per sé inespressiva e assolutamente muta se non lo si accompagna con la didascalia. Per le arti figurative questo processo degenerativo è evidente. Il visitatore sta lì, osserva e si sforza di assumere uno sguardo acuto e interessato, mentre sotto sotto si lamenta del fatto che niente comprende e niente lo commuove. Infine, sgomento, si volta nella speranza di trovare immagini e forme che gli diano fremiti ai sensi, quindi ai nervi e solo dopo, eventualmente, producano concetti.
E almeno in Pollock, come in altri artisti contemporanei, il colore si fa forma a sé stante e parla, continua a parlare sotto forma di immagine senza forma precostituita ma costituita sull’istante, dall’artista ma ancor più da chi se ne fa osservatore in quel dato momento. Una forma metamorfica. L’arte astratta di Kandinsky, l’inimitabile infinitamente imitato, così ha provato ad inseguire, perseguire, forse infine perseguitare, lo spirituale. Ma con Pollock, e dintorni, siamo sul limitare, sulla soglia tra espressivo ed inespressivo, l’assolutamente informe che non è il deforme, ma ciò che interrompe ogni pur minimo segnale di comunicazione. Resta solo la speranza che l’occhio umano sia così acuto e penetrante, e denso di bisogno dello spirituale, che trovi una qualche forma là dov’essa è invece totalmente assente per volontà dell’artista. Ma a forza di non vedere o veder poco la bellezza, anche quell’occhio perde il suo proprio, la sua specificità, che altro non è che il suo essere “umano”. C’è qualcosa che sfugge, che si allontana, che ci abbandona. Lo colsi sedici anni fa, o quasi. Un accenno, o qualcosa di simile, stava proprio all’entrata del museo Guggenheim. Una scritta al neon, distesa lungo un muretto del giardino d’ingresso, recitava questo adagio: “se la forma scompare, la sua radice è eterna”. Come a dire che l’essenza dell’espressione artistica sta nella forma, sia pur ridotta ai minimi termini, scarnificata sino all’essenziale, ma sempre e comunque radice di ciò che chiamiamo arte e non pubblicità o hobby o propaganda o altro ancora.
Tra le pagine del libro di Zecchi, che lessi appena pubblicato, in coincidenza con quel mio soggiorno veneziano, circolavano veementi considerazioni analoghe alle mie. Certo più meditate e più competenti, nonché assai più radicali. Secondo lo studioso veneziano la volontà di soppiantare la bellezza, celeste e terrigna, con concetti e dissertazioni intellettualistiche, risponde al disegno strategico di un pensiero al tempo stesso causa ed effetto delle trasformazioni tecno-scientifiche. L’organizzazione della società occidentale è andata mutando e, con essa, le forme di rappresentazione della vita in essa vissuta. A dire il vero, la forma si è disgregata, non la si è più voluta vedere come significante, magari ingombrante (come già per molti romantici) ma senz’altro necessaria. La Pop Art e l’arte concettuale sono l’angusta testimonianza estetica di un’epoca segnata dal nichilismo insito nel sapere tecnologico, poiché se tutto ciò che è in natura è utilizzabile in quanto oggetto al servizio del soggetto umano l’eguaglianza diventa semplice interscambiabilità che dissolve ogni gerarchia di valore.
Zecchi, in questo libro come nel precedente Sillabario del nuovo millennio (1993) e nel successivo Le promesse della bellezza (2006), ha sempre invitato a scommettere sull’arte quale antidoto, vero e proprio “contromovimento”, all’avanzare impietoso di un pensiero e di una prassi che pianificano tutto per guadagnare all’uomo d’Occidente sicurezza e tranquillità. La “battaglia per la forma” che il “mitomodernismo” proposto negli anni Novanta dallo studioso veneziano, assieme ad altri intellettuali e artisti, ha preteso ingaggiare contro le estetiche dell’astratto e dell’informale è stata e continua ad essere un tentativo di reincantamento del mondo tramite l’invenzione artistica. Il mitomodernismo vorrebbe essere l’etica estetica capace di pompare sangue nel cuore di una modernità ormai esangue per eccesso di interiorizzazione. Il bello è oggi sinonimo di decorazione, piacevole ornamento che rende più tollerabile l’esistenza quotidiana, facendole indossare maschere gradevoli che celano l’inquietante. Eppure la bellezza ha da essere altro, perché è altro.
(1/3. Continua)
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