di Danilo Breschi

denisC’è una missione per l’artista, non tanto per l’arte. Quest’ultima parola esprime un concetto generale e astratto, disincarnato, e come tale è inservibile ai fini di una missione, che solo ad un uomo, o donna, ad una persona insomma, può essere affidata. Molto prima di Stefano Zecchi e dei suoi sodali mitomodernisti, lo svizzero Denis de Rougemont (1906-1985), filosofo di orientamento personalista, era convinto che l’artista potesse, dovesse, “armarsi”, ossia dovesse farsi convesso rispetto al proprio tempo e ricusare tutti i luoghi comuni e, talora, certi anatemi che colpiscono l’espressione artistica. Ad esempio, dire che l’arte è inutile e gratuita significa per il filosofo svizzero adottare criteri “inconsistenti e assolutamente superficiali”, che rilevano soltanto la natura e l’attitudine “della società che li accetta” (da La missione dell’artista, articolo redatto nel 1950 e pubblicato solo nel 1963 su “The Christian Opportunity”, ora tradotto da Damiano Bondi e pubblicato in “Il Covile”, XII, n. 689, 22 marzo 2012, pp. 4-12). Ci dice, infatti, “che questa società ha perso il senso del sacro”.

Dire che l’arte è inutile equivale a dire che noi moderni essa non è necessaria, non ne abbiamo bisogno, poiché solo ciò di cui abbiamo bisogno conquista lo status di “utilità” per noi. Possiamo farne a meno, insomma. Perché? Evidentemente perché non abbiamo bisogno di trovare un “senso”, anche se tutto ci dice quotidianamente il contrario. Eppure, ci comportiamo nei confronti dell’arte e del bello seguendo un giudizio di valore, o disvalore, che ne decreta l’inutilità. L’arte, dal canto suo, non consiste in altro se non in oggetti “la cui ragion d’essere necessaria e sufficiente è quella di “significare”, organicamente e con i mezzi della propria struttura”. Così sosteneva oltre sessant’anni fa Denis de Rougemont.

Una delle più celebri frasi della storia dell’arte e della letteratura riguarda il ruolo salvifico della bellezza e che compare nell’Idiota di Dostoevskij. Ma se si va a rileggere quella pagina ci si renderà conto che nella sua forma originale quella frase è una domanda, non un’affermazione: “quale bellezza salverà il mondo?”. Interrogativo, reso ancor più dubbioso dal fatto che non si sa bene come sia da intendersi la bellezza capace, eventualmente, di operare la nostra salvezza. Denis de Rougemont ci suggerisce una prima risposta efficace, se riteniamo l’opera d’arte la messa in forma – o, appunto, in opera – della bellezza: “l’opera d’arte ha per funzione quella di captare l’attenzione, di calamitare la sensibilità, di affascinare la meditazione, ed al tempo stesso di orientare l’essere verso qualcosa che trascende i sensi e le forme o le parole riunite. È un ‘laccio’, ma un ‘laccio’ orientato”. I sensi come un tramite, il tramite, che va educato, ossia condotto con grazia e/o potenza, per andare oltre quegli stessi sensi.

A dire il vero, Denis de Rougemont non crede affatto che la bellezza sia “un carattere specifico dell’opera d’arte”. Si tratta, al più, di “una qualificazione soggettiva, un termine comodo ma vago, un’esclamazione”. Noi, sostiene lo scrittore svizzero, “chiamiamo ‘bello’ tutto quel che amiamo con intensità”. Bellezza come sinonimo di giustizia, verità, libertà o amore. Ma, dicendo questo, Rougemont finisce per contraddirsi, dando massimo valore alla bellezza, principio sintetico e sublimante. Non trovo infatti sostanziale e profonda la differenza tra la bellezza come l’abbiamo inteso sino ad ora, prendendo le mosse dalle riflessioni di Stefano Zecchi, e quanto affermava Rougemont attorno al 1950: “credo che lo scopo, cosciente o no, di ogni vero artista sia quello di comporre oggetti significativi; dunque di ‘significare’, di rendere attento al senso del mondo e della vita”. Un significato, va precisato, che non ha niente di precostituito, di preconfezionato, né l’artista lo conosce prima che l’opera sia compiuta. È “attraverso l’opera, e in essa sola, che un certo significato si manifesta o si rivela”. E si rivela – ulteriore e fondamentale precisazione – se l’opera è “buona”, dice Rougemont, ossia “bella”, aggiungo io. Un significato che si esprime, si può esprimere, solo e soltanto attraverso quell’opera d’arte, che è tale ed è, per di più, “bella” proprio in virtù di quella capacità espressiva, comunicativa, in sé unica. “Se il significato si fosse potuto esprimere con altri mezzi, l’opera perderebbe la propria ragion d’essere”. Tanto più l’opera cattura e trattiene su di sé l’attenzione e tanto più lontano porta “la meditazione dell’uomo sul suo destino e sull’ordine delle cose”, tanto più l’opera è “grande”, dice Rougemont, è “bella”, aggiungo io.

Per adempiere alla sua “missione”, dunque, l’artista deve anzitutto essere un buon artigiano, e poi deve dare vita ad opere capaci di significare “in maniera efficace”. Buon artigiano significa essere “padrone dei propri mezzi”, conoscere bene il mestiere e le sue regole, che nello specifico implicano la sapiente “arte” di comporre e costruire i “lacci” per il sentimento, la riflessione e l’immaginazione. Mezzi di espressione, dunque. L’arte è anche artificio, sotto questo aspetto. Qualcosa che richiede mestiere, esperienza, conoscenza ed esercizio. L’opposto del dilettantismo, di colui che crede di essere in diritto di esprimersi e di essere riconosciuto come artista solo perché “sente”, si commuove, piange o comunque soffre. Condizione nemmeno necessaria, tanto meno sufficiente, per dirsi “artista”, per essere “artista”.

Passando al secondo requisito che deve avere una missione artistica compiuta, si pone la domanda: in cosa consiste l’efficacia del significato? La sua capacità di evocare l’ordine del mondo e di crearlo dentro all’animo umano, o di provocarne la nostalgia, come accade con le opere di inizio Novecento, quelle grandi, ovviamente. Da Joyce a T.S. Eliot, da Picasso a Giacometti, da Céline a Beckett, e via elencando; tutte opere che “dialetticamente, nostalgicamente, nella rivolta e nella sfida, danno ancora una testimonianza dell’ordine perduto di questo mondo”, scriveva ancora Rougemont confermando il ragionamento che abbiamo fin qui sviluppato. A cui però il suo scritto aggiunge un respiro teologico che merita di essere da noi acquisito e qui di seguito spiegato. Ecco le parole usate dallo scrittore svizzero: “nell’amore dell’artista per l’opera che stacca da sé – non nell’opera in sé – c’è una parabola del gesto paterno, c’è un tentativo di amare la creazione come il Padre l’ha amata”. Inoltre, come accennato poco sopra, l’opera d’arte “tende a significare qualcosa che non sarebbe percepibile altrimenti” e con i propri specifici mezzi estetici la rende sensibile, leggibile, udibile. Ovviamente è un mezzo disvelamento, perché è solo e soltanto in quella forma che il significato si esplica e non è affatto detto che quella forma – che la fa essere l’opera d’arte di quell’artista, il famoso stile – sia immediatamente e chiaramente, senza equivoci o fraintendimenti, intesa da tutti. Di qui la sua unicità e la sua selettiva fruibilità; come a dire: una autentica opera d’arte è per tutti e per nessuno.

Ma se non “per tutti” come diritto, pretesa da soddisfare immantinente, un’opera d’arte dovrebbe essere “per tutti” come impegno, se non missione. Tutti artisti? Non so, non credo. Non propongo l’ennesima utopia, facile preda dell’ironia e ancor più facilmente scivolabile nel ridicolo. La democrazia è cosa seria, e già difficilissima per l’ambito politico. Non confondiamo le acque. Però mi tornano in mente le parole con cui Aristotele definisce la “vita buona” nella sua Politica, ossia nel trattato dedicato a tà politikà, letteralmente gli “affari che riguardano la città” (polis). Scrive lo Stagirita: “fine dello stato è il vivere bene e tutte queste cose sono in vista del fine. Lo stato è comunanza di stirpi e di villaggi in una vita pienamente realizzata e indipendente: è questo, come diciamo, il vivere in modo felice e bello” (III, 9-10, 1280b-1281a). La bellezza è felicità e si è felici se si vive in modo “bello”, ovvero? Se si impegna se stessi e le proprie relazioni, i propri legami, con gli altri, al fine di una vita che sia “pienamente realizzata e indipendente”. Dunque, la bellezza è anche libertà. E la libertà è la condizione degli uomini, nessun escluso, che vivono in una comunità ben governata, dove ognuno, a turno, adempie ai compiti ai quali è chiamato, e non solo non se ne sottrae, ma li ricerca con regolarità. Inoltre Aristotele scrive: “E proprio in grazia delle opere belle e non della vita associata si deve ammettere l’esistenza della comunità politica” (III, 9-10, 1281a). Ciò significa che una società organizzata e retta politicamente, ovvero quel che negli ultimi due secoli abbiamo denominato “Stato”, acquista senso non solo e non tanto per ragioni di mera opportunità utilitaristica, di vantaggio materiale dei singoli, i quali, uniti, hanno maggiori garanzie di sicurezza e prosperità che non restando disuniti e disorganizzati, fuori da una dimensione comunitaria e regolamentata. L’esistenza di una comunità che sia davvero “politica” è “ammessa”, nell’ottica aristotelica, trova cioè la sua giustificazione, la sua motivazione, nella tensione produttiva del bello. Le “opere belle” di cui ci parla Aristotele non sono evidentemente solo le grandi opere d’arte, ma un vivere che non si limiti o si riduca alla “vita associata”, allo stare apatico uno accanto all’altro, magari anche in sospetto dell’altro o in appoggio sull’altro, più o meno parassitariamente. Al più, semmai: a sostegno dell’altro, ma con uno slancio e una tensione che siano sempre di ordine creativo, inventivo, costruttivo. L’amicizia, che è “scelta deliberata di vita comune”, è il sentimento cardine di una comunità politicamente buona e giusta, ed anche efficiente ed efficace. L’amicizia contribuisce a rendere belli chi fa e ciò che fa. Ipse dixit.

Aristotele metteva così in relazione bellezza e politica, e suggeriva una meritocrazia fondata sul livello di impegno, oltreché di capacità realizzativa, a favore del bello inteso come fattore connettivo e coesivo di una comunità viva e propulsiva. “Perciò quanti giovano sommamente a siffatta comunità hanno nello stato una parte più grande di coloro che sono ad essi uguali o superiori per la libertà e per la nascita ma non uguali per la virtù politica, e di coloro che li superano in ricchezza e ne sono superati in virtù” (ibid.). Politicamente virtuoso è colui che si impegna in “opere belle”, ha di mira, cioè, la realizzazione di una vita piena e indipendente, che solo se cimentata nell’agone pubblico può davvero esplicarsi. La missione dell’artista diventa così l’impegno di ogni suo cittadino a farsi cercatore della propria e dell’altrui eccellenza. E l’eccellenza non è un atto, ma un’abitudine, diceva Aristotele.

Dobbiamo riconoscere ed accettare che un comportamento, una pratica dotata di valori interni e di modelli di eccellenza possieda quali sue componenti essenziali, “necessarie”, le virtù della giustizia, del coraggio e dell’onestà. La politica per Aristotele era una pratica con valori interni ad essa; nell’età moderna e contemporanea non lo è più. L’arte era strettamente connessa alla vita, sia in epoca antica che in epoca medievale. Non pensare più alla propria vita come un’unità narrativa ha favorito negli ultimi due secoli gravi ferite tanto per il singolo quanto per la collettività. La grande rivoluzione è stata educativa, e in questo senso anche politica. Così ci suggerisce un interprete contemporaneo dell’etica aristotelica, il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre (After Virtue, 1981, 20073). Noi potremmo sommessamente aggiungere che la bellezza ripristinata come fine, come ideale regolativo, della propria e dell’altrui vita consiste nella capacità di raccordare quelle tre virtù – giustizia, coraggio ed onestà – e di farle vibrare all’unisono come fossero le corde della lira di Orfeo. Di fronte ad una siffatta melodia la natura, anche umana, ci sarebbe assai meno matrigna.

(3/3. Fine)

 

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