di Andrea Colasuonno
Nella Sinistra tutti sentono la mancanza di Berlinguer, tutti propongono di “tornare a Berlinguer” come un qualcosa che starebbe alle nostre spalle. Invece, a ben guardare, Berlinguer bisogna raggiungerlo, inseguirlo, tanto sono state avanguardistiche alcune sue idee. Quando si propone di tornare a Berlinguer di solito lo si fa riferendosi alla “questione morale”, ma il pensiero politico del leader per eccellenza della Sinistra italiana è pieno d’idee e suggestioni rimaste totalmente inascoltate, le quali sarebbe utile provare ad esaminare con rinnovato interesse.
Una di queste è l’idea di “austerità”. Negli interventi nei quali a fine anni ’70 Berlinguer per la prima volta parla di “austerità”, il Segretario chiarisce cosa intenda per essa con parole che sembrano successive all’esperienza Monti. “L’austerità non è oggi un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per superare una difficoltà temporanea e poter consentire la ripresa e il ripristino di vecchi meccanismi economici e sociali. […] Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo […], quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato”.
In sostanza l’idea berlingueriana di “austerità” è ciò che oggi definiremmo “decrescita”, e senza troppo azzardo, considerato che lo stesso Latouche parla di Berlinguer come di un alleato e un precursore di quella che è attualmente la sua proposta. Tuttavia la “decrescita” è un concetto vasto e volutamente indefinito (“non è un’alternativa, è una matrice di alternative”, spiega Latouche), ad alcune sue proposte odierne Berlinguer ovviamente non pensava, ed è lecito anche dubitare che, ove presentategli, le avesse fatte proprie. Si pensi a temi quali quelli del “localismo” come “l’autonomia economica locale” o “la democrazia ecologica locale” o il tema della “convivialità”, dello “spirito del dono” e delle forme se pur ripensate di “baratto”. Dall’altra parte però sarebbe anche semplicistico intendere la proposta di Berlinguer come mera esortazione ad uno “sviluppo sostenibile”, concetto osteggiato dai sostenitori della “decrescita” poiché orientato a restare nella logica della “crescita” solo cambiando i mezzi di produzione, ed estraneo anche a Berlinguer.
Ciò che “l’austerità” del politico sardo allora sembra essere è quel che oggi i seguaci della “decrescita” chiamano “abbondanza frugale”. Con l’intero progetto della “decrescita” Berlinguer condivide le acquisizioni fondamentali ed è per questo che è possibile un accostamento: (1) la necessità di una ridistribuzione della ricchezza; (2) l’uscita dal capitalismo; (3) un riequilibrio dei rapporti con i paesi del Sud del mondo; (4) l’esigenza di rispettare i limiti ecologici del pianeta. Se tuttavia la “decrescita” porta queste premesse alle estreme conseguenze toccando anche l’ambito economico, pedagogico, scientifico, tentando di sistematizzarli, Berlinguer e “l’austerità”, o “frugalità”, si fermano a quello sociologico e culturale, sfiorando soltanto gli altri ambiti.
In sostanza Berlinguer parla ai singoli, ai suoi militanti e al resto degli italiani, per chiedere loro di cambiare la propria scala di valori, le proprie abitudini, stili di vita convinzioni, votandoli a una razionalizzazione, con il duplice intento di scardinare il modello economico vigente fondato sul consumismo e che senza di esso collasserebbe, e di preparare il popolo al modello del futuro che per forza di cose non potrà più essere bulimico come lo si era conosciuto, ma non per questo indesiderabile. “L’austerità per definizione comporta restrizioni di certe possibilità a cui ci si è abituati, rinunce a certi vantaggi acquisiti: ma noi siamo convinti che non è detto affatto che la sostituzione di certe abitudini attuali con altre, più rigorose e non sperperatrici, conduca a un peggioramento della qualità e della umanità della vita”.
Quello di Berlinguer allora è un discorso al privato cittadino che una volta fatto proprio si auspica porti un macro cambiamento a livello pubblico, cambiamento di cui tuttavia, a chi lo propone, non sono ancora chiari i connotati. Se quindi la proposta della “decrescita” è quella fondata sulle 8 “r” (rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare/riciclare), la proposta di Berlinguer sicuramente si basa su 4 di esse puntando ad una società in cui “rivalutando” i valori fondanti, si arrivi a una “riconcettualizzazione” delle coppie ricchezza/povertà o rarità/abbondanza. Ciò porterebbe poi, plausibilmente, a una “riduzione” dei consumi e della produzione in accordo con i limiti della terra e così a una “ridistribuzione” della ricchezza, sia all’interno delle società occidentali, sia fra queste e quelle del Sud del mondo.
Latouche spiega come la sfida della decrescita si svolga su due piani: (1) quello delle parole, delle rappresentazioni, dell’immaginario; (2) quello delle cose, delle realtà concrete. In accordo con ciò si può dire che Berlinguer avesse cominciato a porre l’attenzione sul primo abituando la sua gente alla frugalità, in attesa di poter giungere al secondo. Probabilmente memore dei lasciti teorici del suo illustre predecessore, Antonio Gramsci, e della sua idea di “egemonia”, il Segretario ha ritenuto che nessun cambiamento si sarebbe verificato se prima il sistema di valori alla sua base non fosse diventato dominante. Intuizione affatto errata, in caso ci fosse bisogno di dirlo, visto che anche Latouche, trent’anni dopo, scrive “questa decolonizzazione dell’immaginario precede qualsiasi costruzione di una via alternativa”.
Il tema dell’”austerità” fu il tema forse più criticato ed incompreso (salvo rare eccezioni) fra quelli proposti da Berlinguer, probabilmente a riprova della sua radicale innovatività. Il segretario del PCI lo introdusse durante due interventi a distanza di 15 giorni l’uno dall’altro: il primo tenutosi a Roma nel gennaio 1977 nelle conclusioni al convegno degli intellettuali; il secondo a Milano nelle conclusioni all’assemblea degli operai comunisti lombardi. Il momento storico era quello di una grande crisi economica a cui il governo stava reagendo con la “politica di sacrifici”. Uno sguardo a posteriori, a noi che ci è permesso, ci dice che Berlinguer in quel momento parlava quando si erano appena conclusi quelli che molti economisti avrebbero chiamato “i trenta gloriosi”, ossia gli anni dal 1945 al 1975 nei quali si edificò l’Occidente così come oggi lo conosciamo, cioè basato su progresso, consumismo e crescita economica. Di lì a poco si sarebbero aperti “i trenta pietosi” ovvero i trent’anni di crisi e trovate economiche e politiche affatto felici tentate per mantenere gli standard dei decenni appena trascorsi che, a partire dai primi anni ’80, ci avrebbero portato nella situazione in cui siamo oggi. A ciò va aggiunto che nel 1972 era stato pubblicato il rapporto del “Club di Roma”, la relazione del gruppo di scienziati che dimostrava come il modello di sviluppo occidentale fosse materialmente insostenibile, fondando l’ecologismo contemporaneo.
Fu in questo contesto storico allora che Berlinguer provò ad immaginare un modello nuovo di società. “Il paese avrebbe bisogno […] di veder chiari alcuni elementi fondamentali di una prospettiva nuova. E invece gli esponenti delle vecchie classi dominanti […] non sanno andare più in là dell’obiettivo di riportare l’Italia sugli stessi binari su cui procedeva lo sviluppo economico prima della crisi. […] Come se la crisi di questi anni e di oggi non fosse esattamente la crisi di quel modello di società”. Si trattò allora, per il Segretario, di delineare una via per la Sinistra del futuro che fosse estranea al produttivismo capitalista, ma estranea anche al produttivismo comunista, che uscisse in sostanza dalla stretta di una politica economicistica qualunque fosse l’ideologia nella quale fosse compresa, e che mantenesse però al fondo le aspirazioni più alte del marxismo, quelle impegnate in una riforma “antropologica”, “mondiale” e “civilizzatrice” dell’umanità: questo fu la via dell’austerità.
È storia nota che la Sinistra scelse invece un’altra via, quella della conservazione, sia nel caso degli ultimi 10 anni di vita del PCI, sia in quello delle due esperienze che si avviarono a partire dalla sua fine. Con la fondazione del PDS (Partito Democratico della Sinistra) una parte maggioritaria della Sinistra si avviò progressivamente verso il “centro”, il moderatismo, il social-liberismo; mentre con la fondazione del PRC (Partito della Rifondazione Comunista) la restante parte si votò alla difesa della propria purezza e delle maggiori conquiste dello Stato Sociale del sec. XX. Entrambe, lasciando cadere l’indicazione di Berlinguer (del resto neanche lui, a causa del concatenarsi degli eventi, poté riaffermarla strenuamente), restarono interne al “paradigma produttivista”, fondato sullo sviluppo delle forze produttive e così propedeutico alla società della “crescita”.
Oggi tuttavia l’occasione si ripresenta e sembra ci siano tutti gli elementi perché le forze di sinistra, senza escludere i sindacati, possano prendere un treno segnalato trent’anni fa dal leader più compianto. Può non essere la “decrescita” per come intesa oggi da Latouche, ma una seria riflessione su un nuovo modello di sviluppo che metta al centro il problema ecologico, andando oltre l’idea ingenua e assolutoria di “sviluppo sostenibile”, la Sinistra non può più prorogarla. Un ”ecosocialismo” è l’ultima possibilità che ha la Sinistra di essere di nuovo rivoluzionaria e civilizzatrice, ovvero di essere Sinistra. Immaginando il susseguirsi delle stagioni politiche e sociali come una corsa a staffetta, adesso, visto il periodo di crisi, possiamo dirci nella “zona di cambio”, Berlinguer è stato il più veloce della sua batteria e ha passato il testimone, non lo si lasci cadere e, per una volta, si tenti di arrivare primi.
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