di Daniele Bronzuoli*
Sembra esserci un equivoco fondamentale nel modo in cui, da un po’ di tempo e anche sulle pagine di questa giornale elettronico (cfr. l’articolo recente di Sara Zanon, Verso una politica post-carismatica), si viene articolando il dibattito attorno alla natura carismatica, o presunta tale, della leadership esercitata da Silvio Berlusconi.
Come insegnava Weber, il potere carismatico si presenta come «specificamente irrazionale nel senso che manca assolutamente di regole», si distingue da quello burocratico, o tradizionale, perché rovescia il passato e può infine «costituire un mutamento […] delle direttrici di pensiero e di azione in base ad un orientamento del tutto nuovo delle posizioni di fronte a tutte le singole forme di vita e di fronte al mondo».
Prendendo per buona tale definizione, mi domando come possa essere considerata sovvertitrice del diritto, o «rivoluzionaria», l’azione di un capo del Governo costretto ad elemosinare senza successo presso il Quirinale un decreto legge sulle intercettazioni di natura simile, se non identica, a quello confezionato da Clemente Mastella e approvato con il voto pressoché unanime della Camera dei Deputati già nel corso della precedente legislatura, più precisamente nell’aprile del 2007.
Imbrigliato nella fitta rete delle regole e dei contrappesi istituzionali, mal consigliato da giuristi e legulei a corto di visione e strategia politica, il Cavaliere non soltanto non è riuscito a guidare il Paese nel trapasso da una vecchia e farraginosa architettura istituzionale ad una più moderna e funzionale, ma non ha ottenuto neppure di proteggere le prerogative sue e del potere esecutivo che gli compete dalle incursioni di una magistratura impegnata a monitorare con modalità spesso discutibili le sue patologie pubbliche e private.
Asceso per la prima volta ai vertici dello Stato nel marzo del 1994, Berlusconi ha saputo tempestivamente occupare il vuoto di rappresentanza politica lasciato in eredità dalla rivoluzione giudiziaria del 1992-‘93, volgendo a proprio favore l’inerzia di quel corpo elettorale che, tradizionalmente fedele ai partiti di governo e riconoscente nei confronti del ruolo storico da essi svolto, si dimostrava non disponibile a sacrificare le proprie convinzioni sull’altare della pretesa innocenza dei «salvati» dall’inchiesta «Mani pulite». Forte dell’esperienza maturata come imprenditore televisivo, egli è riuscito a capitalizzare in massimo grado il processo di personalizzazione e spettacolarizzazione della politica originato dal crollo delle organizzazioni partitiche e dallo sviluppo dei sistemi di comunicazione di massa, sfruttando nel contempo quella sfiducia verso la politica che si prestava naturaliter a divenire credito smisurato nei confronti dei cosiddetti «rappresentanti della società civile». Senza avocare a sé titoli di legittimità trascendente – a parte le boutades che non a caso sono state fatte oggetto di scherno anche dalla maggioranza dei suoi stessi elettori – e senza proporsi come depositario, interprete ed esecutore di una filosofia della storia capace di inverarsi nel mondo, il Cavaliere ha “semplicemente” veicolato l’antipolitica nelle stanze del Potere, scontando da ultimo, in termini di consenso, quella divaricazione tra proclami e realizzazioni che se può forse essere perdonata ai politici di professione, più difficilmente viene concessa ad un outsider orgoglioso dei propri successi personali. Solo per amor di paradosso, o di caricatura, si potrebbe ipotizzare che la fiducia di cui ancora gode all’interno del PdL derivi dalla devozione dei seguaci «all’eccezionale santità, eroismo o carattere esemplare» della sua persona o dall’aura di leggenda e mistero che circonda la sua figura. Molto più banalmente Berlusconi tiene in mano, attraverso la facoltà d’individuazione degli eletti che gli proviene dall’attuale legge elettorale, la sorte di deputati, senatori e consiglieri nella maggior parte dei casi dotati di scarsa personalità e provvisti di ancor minore autonomia di giudizio.
La sua leadership non ha dunque nulla da spartire con quella, effettivamente «straordinaria», dei dittatori totalitari del XX secolo, chiamati a inaugurare l’inizio di una «nuova civiltà» e capaci di stabilire con le masse e i propri adepti un rapporto di ubbidienza e sottomissione emotiva costantemente alimentato dalla magia della parola. Distante dal modello di relazione sociale storicamente esistito tra il capo carismatico e il «seguito» sembra essere, più in generale, quello inerente al rapporto tra governanti e governati nelle moderne democrazie occidentali, dove il Potere riesce con sempre minor successo a conservare l’opacità del suo operato dagli assalti e dagli appetiti più o meno meschini dell’opinione pubblica. È vero che Aron menzionava il «culto della personalità» per descrivere il consenso suscitato dall’azione politica e morale di Charles De Gaulle a partire soprattutto dal giorno della trasmissione via radio del celebre appello ai Francesi (18 giugno del 1940). È altrettanto vero, tuttavia, che il Generale non solo governò dal giugno del 1944 al gennaio del ‘46 con l’appoggio di tutti i grandi partiti usciti dalla Resistenza (PC, MRP e SFIO), ma nel brevissimo periodo compreso tra il giugno e il settembre del 1958 riuscì anche ad assumere la Presidenza della Repubblica, a redigere una nuova Costituzione, a farla approvare attraverso referendum dall’83% degli iscritti al voto e ad istituire quindi un ordine politico – quello della V Repubblica, ancora vigente – direttamente ispirato alla sua dottrina.
Al cospetto dell’impronta lasciata dall’«ultimo dei re» sulla storia francese ed europea la prassi berlusconiana, così palesemente stretta fra desideri di grandezza e fisiologica impotenza, volge quasi al ridicolo.
*Storico del pensiero politico