di Alessandro Campi
“E io…. nun moro! Hai capito? Nun moro! Nun moro”, urla il palazzinaro romano Romolo Catenacci (Aldo Fabrizi), ormai malato e in carrozzella, al genero Gianni Perego (Vittorio Gassman), avvocato un tempo idealista, poi divenuto rampante e cinico, che ne aspetta la morte per raccoglierne l’eredità di famiglia. È una scena tra le più intense e strazianti di C’eravamo tanto amati. In forma fortunatamente meno drammatica, senza gli abissi di solitudine e miseria umana che si ritrovano in alcuni dei protagonisti della celebre pellicola di Scola, tale scena si è riproposta in questi giorni nella politica nazionale.
L’uomo che non molla, che politicamente “nun more”, che urla ai suoi potenziali successori, troppi e troppo famelici, ma anche spesso non all’altezza della sfida, di non voler lasciare il posto che occupa, è naturalmente Silvio Berlusconi. Ringalluzzito dalla sentenza milanese, che l’ha mandato assolto da capi di imputazione odiosi, sembra più che mai deciso mai a rifondare il centrodestra, volendo esserne ancora una volta il dominus, e persino a ripresentarsi al cospetto degli elettori se mai dovesse trovare un espediente legale attraverso il quale rimuovere la sua attuale condizione di incandidabile.
Ci si chiede cosa significhi politicamente questo suo ritorno in campo. Per gli alleati potenziali – dal Nuovo centrodestra di Alfano alla Lega di Salvini – non è una notizia allegra. E infatti non sembrano entusiasti, A dispetto dei reciproci inviti al dialogo circolati in questi giorni, non sembrano affatto entusiasti all’idea di riunirsi nuovamente intorno all’ex Cavaliere, il che avverrebbe come sempre alle sue condizioni. Temono giustamente un pericoloso e inutile ritorno al passato, ad una formula – quella del rassemblement dei moderati dall’ombra dell’ineguagliabile carisma berlusconiano – che ha smesso di funzionare non per colpa della magistratura, ma perché nel frattempo nella politica italiana si è prodotto – con l’avvento di Renzi e Grillo, con l’acuirsi della crisi finanziaria – un terremoto al quale solo Berlusconi, ottimista impenitente, ritiene di essere miracolosamente sfuggito.
Ma il destino unitario del centrodestra, in questo momento, è questione secondaria, che si porrebbe come urgente solo in caso di elezioni anticipate, che pure qualcuno ipotizza come la vera clausola segreta del Patto del Nazareno. In questo frangente, conta piuttosto capire cosa significhi il rinnovato protagonismo del leader di Forza Italia nel suo rapporto con Matteo Renzi.
I due, come alcuni sostengono, si rispecchiano – al netto della differenza di generazione – in molti comportamenti e atteggiamenti. Nella capacità affabulatoria come nel primato assegnato al fare, nella frenesia politica come nella maniacalità riservata alla propria immagine e alla comunicazione, nell’autostima assai grande come nell’altrettanto grande capacità di lavoro. Ma in comune hanno anche la scaltrezza e una certa dose di avventurismo. Da qui il patto politico sulle riforme che hanno siglato, reso facile e solido anche da queste comunanze temperamentali. Patto che però sinora ha funzionato soprattutto a vantaggio del più giovane dei contraenti, stante l’oggettivo stato di debolezza politica del sottoscrittore più anziano.
Ma adesso le cose potrebbero cambiare. Non si allude tanto alle difficoltà che già si palesano nell’approvazione in Aula della riforma del Senato. Su questo terreno il Berlusconi “costituente” e novello “padre della patria” è probabile che non abbia intenzione di venire meno agli impegni presi. Quanto ai riottosi di Forza Italia, si sa quanto forte sia la sua capacità di persuasione, di riportare, con blandizie e minacce, tutti all’ordine. Si allude piuttosto alla possibilità che Berlusconi, come sembra di capire da alcuni accenni, voglia aprire come fronte di lotta nei confronti della sinistra quello dell’economia, del lavoro, dello sviluppo e delle tasse.
Si tratta di un terreno a lui congeniale, politicamente rimasto trascurato dall’ossessione di questi mesi per i ritocchi alla Costituzione e dal dibattito sulla legge elettorale. Ma con i dati economici che volgono al peggio, senza che ancora si sia manifestato alcun segnale di inversione sul fronte della produzione e dei consumi, con lo spettro della stagnazione che secondo molte proiezioni statistiche grava sull’Italia, Renzi – sinora senza contendenti in grado di frenarne lo slancio o di rintuzzarne i propositi battaglieri – potrebbe per la prima volta trovarsi in serie difficoltà sul fronte interno. E sommate queste ultime alle difficoltà esterne, quelle derivanti da un semestre alla guida dell’Europa che per lui rischia di finire prima ancora di cominciare, potrebbero in effetti aprirsi scenari diversi da quelli sin qui ipotizzati.
Sugli scarsi risultati ottenuti sul fronte economico si sono bruciate anzitempo, dopo gli entusiasmi iniziali degli italiani, le leadership di Mario Monti e Gianni Letta, come Renzi sa bene. Quest’ultimo può anche spingersi sino ad offrire a Berlusconi, come in parte auspicato ieri dal Capo dello Stato, una storica riforma della giustizia, dopo avergli concesso di cambiare insieme pezzi del Parlamento e le regole di voto. Ma se il Cavaliere, per riaccreditarsi come leader politico, dovesse cominciare a martellare sul malessere economico degli italiani, sulle difficoltà che non accennano a finire di imprese e lavoratori, il cammino di Renzi al governo potrebbe d’improvviso complicarsi.
Chissà che ne sarebbe del loro rapporto di stima e simpatia se il più anziano, deciso più che mai a non mollare e a riprendersi il centrodestra di cui è stato l’inventore e il padrone per vent’anni, cominciasse a fare una seria opposizione al più giovane sulla materia che meglio conosce, che è poi l’unica alla quale i cittadini d’ogni età siano in questo momento ipersensibili.
* Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 23 luglio 2014
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