di Alessandro Campi
Si rende sempre omaggio agli sconfitti. Ma non è solo un problema di cavalleria o di stile. Ci si mostra magnanimi e generosi non solo per ragioni di clemenza. Nel caso di Bersani – che ieri ha rimesso piedi nell’aula di Montecitorio dopo la malattia scatenando un lungo e affettuoso applauso – ci sono anche delle ragioni di convenienza politica che suggeriscono al vincitore della battaglia per la conquista del Partito democratico e ora del governo del Paese, di valorizzare (rendendogli il giusto merito anche sul piano umano) una personalità come la sua dopo esserne stato l’avversario più risoluto.
Bersani ha giocato indubbiamente male la partita politica della sua vita e ha perso tutto – le elezioni, la guida del Paese, il partito – nel giro di pochi mesi. Gli errori si sono sommati alla malignità di fortuna, creando quel miscuglio fatale che secondo Machiavelli spiega la repentinità di certe cadute in politica. Non bisogna essere seguaci della medicina olistica per comprendere che anche il malanno che l’ha colpito ha avuto come causa organica lo sconquasso emotivo che si deve essere prodotto nel suo animo nel corso di giornate e settimane che debbono essere state per lui a dir poco drammatiche
Ma ora che è tornato, per sua fortuna in buono stato fisico, si sbaglierebbe a trattarlo come il sopravvissuto di una stagione politica finita per sempre, come un pensionato cui riservare al massimo un sorriso o una parola generosa, o appunto come uno sconfitto sul quale si è deciso di non infierire solo perché già ci ha pensato il destino.
Bersani, Renzi dovrebbe capirlo alla svelta, è una risorsa di cui il Pd (sempre sull’orlo di spaccarsi, mai pacificato) ha grandemente bisogno. Ieri, è vero, si è voluto cavare una soddisfazione, o prendere una piccola rivincita, ostentando di essere in aula per il suo amico Enrico Letta (col quale s’è affettuosamente abbracciato) e non per il neo-presidente del Consiglio, che certo non aveva bisogno di un voto in più per ottenere la fiducia. In realtà, Bersani si è ripresentato in pubblico anche per il suo partito, per chiarire che la fiducia andava votato in modo compatto e che bisognava smetterla di evocare scissioni o la nascita di nuovi raggruppamenti. Non che uno come Pippo Civati, un miracolato dalla Rete che ha solo il merito di parlare bene in televisione, vada preso sul serio quando parla di farsi un nuovo partito: non ne ha né i mezzi né il coraggio. Ma già solo minacciarla come possibilità reale è un danno che andrebbe risparmiato ad una realtà fragile qual è e rimane il partito democratico.
Bersani, che non è mai stato un intrigante o un uomo di potere alla maniera di altri vecchi capi comunisti, che è tra i pochi in quel mondo ad aver perso e integralmente pagato il suo conto, che ha sempre tenuto un comportamento pubblico nel segno del rigore e di una manifesta serietà, è la figura nella quale possono ragionevolmente riconoscersi tutti coloro che nel Pd vogliono l’unità, ovvero un minimo di concordia e di pace interna, invece che lo scontro permanente, che prima o poi rischia di finire sul serio in separazione.
La minoranza interna sconfitta da Renzi è composta, come si è visto in queste settimane, da una generazione di giovani ambiziosi e mossi da spirito vendicativo, che stanno lì pronti in attesa di prendersi la rivincita, che fosse per loro farebbero saltare il governo appena insediatosi alla prima occasione; oltretutto hanno questo sigillo impresso in faccia, il credersi cioè scaltrissimi, i più intelligenti del creato, solo un po’ sfortunati per non aver trovato in tempo la soluzione giusta per mettere fuori gioco quel bischero di un fiorentino. Ma prima o poi…
Renzi, dal canto suo, è quel che è: uno sfrontato, uno che ha la tendenza a trasformare il contenzioso in rissa, uno che media con gli avversari solo quando sono a terra impotenti, dunque alla sue pessime condizioni, che quando vince vuole stravincere e per farlo non si risparmia qualunque mezzo, uno che quasi si diverte ad umiliare una persona con una battuta a costo di attirarsene l’odio imperituro.
Giovani turchi, radicali di sinistra e renziani, se non si danno una calmata, ci mettono un niente a distruggere il Pd. D’altro canto, la battaglia per chi dovrà guidarlo, ora che Renzi è a Palazzo Chigi, rischia di aprirsi nuovamente, dopo che le primarie l’avevano finalmente risolta. Se non interverranno mediatori di lungo corso, se non ci sarà qualcuno che con un briciolo di saggezza si ergerà a padre nobile o a figura super partes di quel mondo, forte del proprio prestigio e del proprio buon nome, il rischio che finisca con un big bang politico è reale. Bersani, proprio perché la sua partita di potere è finita, sembra avere queste caratteristiche. Può essere l’uomo della continuità e dell’armonia, quello che salva il collettivo (lo spirito della militanza, il radicamento sul territorio, i simboli di una storia comune, l’equilibrio necessario tra maggioranza e minoranza) ora che il Pd si è piegato, anche per la banale e strumentale ragione che non se ne poteva più di sconfitte e umiliazioni, al personalismo bulimico dell’ex sindaco di Firenze.
Quest’ultimo ha vinto su un intero gruppo dirigente, su una certa idea del Pd nata dalla confluenza di apparati post-comunisti e post-democristiani, predicando la rottamazione. Ma è anche vero che a furia di innovare, cambiare, modificare, licenziare, tagliare e denigrare alla fine non ti resta niente: uno spazio comune nel quale riconoscersi, una bandiera da agitare, un popolo al quale parlare nella sua stessa lingua, un progetto politico condiviso. Renzi, anche se talvolta dà l’impressione che voglia fare tutto da solo, sa bene che gli serve un partito alle spalle. Ma gli serve un partito che sia minimamente coeso e leale, che non si comporti con lui domani come si è comportato proprio con Bersani nemmeno un anno fa. Quest’ultimo, adesso che è tornato, difficilmente ha voglia (tantomeno convenienza) di mettersi a fare l’oppositore organico alla Cuperlo o il dissidente alla Civati: il suo ruolo naturale è quello del saggio e del garante di una comunità politica che non riesce a trovare pace dacché è nata. Concedergli tale ruolo sarebbe tra le mosse intelligenti che potrebbe fare un partito che sin qui ha coltivato l’arte dell’autolesionismo e una convenienza che Renzi per primo non dovrebbe lasciarsi sfuggire.