di Danilo Breschi

In questi giorni non si mancherà di ricordare come si deve Lucio Dalla, uno dei più prolifici, genuini e geniali cantastorie nell’Italia degli ultimi quarant’anni, virtuoso musicista e cantante, capace di unire od alternare la tradizione melodica, e persino lirica e operistica, ad una originale fusione di jazz e vocalizzi e testi di gusto futurista o surrealista, comunque di originale sperimentalismo. Si pensi a canzoni come “Nuvolari” o “Disperato Erotico Stomp”, per non parlare dei quattro album realizzati con il poeta Roberto Roversi.

Inoltre, Lucio Dalla è stato un piccolo magico folletto estroso, brioso, gioioso, che ha saputo motivare tanti amici intorno a lui, aiutandoli ora con la sua collaborazione artistica ora con il suo calore umano, mettendo da parte certe sue paure e malinconie che poeticamente affiorano qua e là in molti brani, come “L’anno che verrà” o “Caruso”. Grazie all’iniziativa di impresari e artisti che della sua amicizia e simpatia hanno beneficiato, la ricorrenza del settantesimo anno dalla nascita, praticamente coincidente con il primo anniversario della morte, riceverà tutta la debita attenzione, compresa un megaconcerto trasmesso anche dalla Rai.

Ma c’è un altro cantastorie della musica italiana che in questi giorni, esattamente il 5 marzo, un giorno dopo Dalla, avrebbe compiuto settant’anni, ma da quasi quindici anni non è più tra noi. Sto parlando, ovviamente, di Lucio Battisti. L’altro Lucio. Tanto il primo era, almeno in pubblico, solare e socievole, tanto l’altro era ombroso e timido. Uno l’opposto dell’altro, si direbbe. Ma questo secondo Lucio è stato forse ancora più grande, anche più amato, seppur come idolo quasi invisibile, specialmente dalla seconda metà degli anni Settanta in poi, fino alla morte, avvenuta il 9 settembre del 1998. Già intorno al 1972, proprio quando comparve in tv nel celebre duetto con Mina (una esibizione memorabile!), Battisti cominciò a manifestare insofferenza nei confronti delle apparizioni televisive e delle interviste giornalistiche. Ne avrà abbastanza della logica scandalistica e della fame di scoop della cosiddetta “informazione”, e si sottrarrà ai riflettori, concerti compresi, e questo contribuisce a renderlo caso quasi unico nel panorama della musica italiana e internazionale (Mina ne seguirà più tardi l’esempio).

A fine ’73 il cantante di Poggio Bustone arrivò persino a rifiutare una richiesta di Gianni Agnelli, che gli chiese di esibirsi al Teatro Regio di Torino in uno spettacolo sponsorizzato dalla FIAT, per un compenso di 2 miliardi di lire. Nonostante il ritiro assoluto e irrevocabile da ogni platea, da ogni scena pubblica, almeno nazionale, Battisti è sempre rimasto sulla cresta dell’onda. Alla faccia dell’imperante civiltà dell’immagine. A cosa è dovuta questa persistenza dell’Assente nel cuore dei suoi coetanei, come dei loro figli?

Anche Battisti è stato un geniale cantautore, compositore, polistrumentista nonché produttore discografico. E grande chitarrista (si veda l’esaltante esecuzione di “Eppur mi son scordato di te” nel programma tv “Teatro 10”, del 1° maggio 1971). Rispetto a Dalla, credo che per Battisti valga quanto dichiarato poco tempo fa dal giornalista Marino Bartoletti: è uno dei tre che hanno rivoluzionato la musica popolare italiana negli ultimi cinquant’anni, dopo Domenico Modugno e prima di Vasco Rossi. La prima virtù della musica battistiana sta nella forza della sua musica, nell’originalità di certe soluzioni sonore, risultato di un talento naturale disciplinato da un meticoloso lavoro da artigiano delle note, come tanti suoi amici e collaboratori hanno più volte segnalato e ricordato. E poi c’è la determinazione a non adagiarsi mai sul proprio successo, rifiutando di confezionare motivi prodotti in serie. La ricerca non si è mai esaurita, almeno fino a “La sposa occidentale”, album del 1990.

Ciò che è stato composto da Battisti in circa venticinque anni non ha eguali nel panorama musicale italiano, sperimentando ogni genere, spaziando dal beat al rythm’n’blues, dal rock alle melodie latinoamericane, fino ai componimenti strumentali per orchestra, approdando infine all’elettronica. In questo ha forse superato il pur poliedrico e sperimentale Dalla. Gli è mancata solo l’opera lirica, sperimentata invece da quest’ultimo con “Tosca, Amore Disperato” (musiche, libretto e regia). Ma a Battisti appartengono sperimentalismi che precedono, ad esempio, un David Sylvian, come testimoniano le risonanze siderali di “Abbracciala abbracciali abbracciati” (da “Anima latina”, 1974). E cosa dire del rock-blues rauco e scanzonato, con lampi psichedelici, di brani come “Il tempo di morire” (1970) e “Insieme a te sto bene” (1971), se non che Zucchero pare più un epigono di Battisti che non di Joe Cocker?

Su tutte quelle note si inseriscono in una simbiosi perfetta le parole di Mogol, più di ogni altro capace di dar forma scritta a ciò che gli accordi di Battisti dicono in altro modo. D’altronde “ogni musica che non dipinge nulla è un rumore”, osservava giustamente Jean-Baptiste d’Alembert. Due linguaggi si fondono in uno. Tutto questo assicura la longevità, se non l’immortalità. Cultura popolare, certo, ma pur sempre cultura. Storie di sentimenti, d’amore gioioso o triste. Ma non ci sono solo emozioni universali nei testi delle canzoni di Battisti. Così rivolgo un invito affinché si presti attenzione a certe idee espresse in alcuni brani battistiani, specialmente quelli degli anni Settanta.

“Con le mie canzoni io trafiggo le consuetudini”, diceva Battisti nel 1973, e lo faceva con le note, ma pure con le parole. Si dirà che il ragionamento che segue dovrebbe riguardare Mogol, l’autore dei testi. Difficile però stabilire se l’autonomia fra musica e testo, al momento della composizione, fosse sempre assoluta. Sembra che al contrario esistesse una autentica sinergia. Di sicuro c’è che Battisti ha cantato con totale adesione quelle parole, e per tanti motivi è lecito pensare che fra i due vi fosse una sostanziale affinità di idee. Anche per quel che suggeriscono le poche interviste rilasciate negli anni Settanta dal musicista di Poggio Bustone. E poi si tenga anche conto del fatto che Mogol aveva già firmato i testi di canzoni di grandissimo successo, ma di tutt’altro tenore, e dal confronto con queste si coglie immediatamente come Mogol trasformi radicalmente la sua scrittura siglando il sodalizio con Lucio. Che la personalità di Battisti filtri attraverso le parole di Mogol e ne influenzi la stessa ideazione e creazione è ipotesi che mi piace avanzare, e forse è tutt’altro che peregrina.

Accenno, allora, alla “filosofia” sottesa a quelle canzoni. In album come “Il nostro caro angelo” (1973) o “Anima latina” sale il canto di uno stile affascinante, poetico e, a suo modo, “metapolitico”. Nel senso che vi sono delle scelte di campo in quelle frasi fuse con le note, la voglia di dire senza mezzi termini ciò che piace e ciò che disgusta del tempo e della società nella quale ci si ritrova a vivere. Il canto di un alternativo modus vivendi. Nessun partito, nessuna ideologia. Tutto con poesia, spesso con ironia. Ed ecco composizioni senza una parola in cui il titolo è già un manifesto programmatico, come “Seduto sotto un platano con una margherita in bocca guardando il fiume nero macchiato dalla schiuma bianca dei detersivi” (da “Amore e non amore” del 1971). E poi in “Due mondi” (1974) emerge lo stupore di fronte alla natura incontaminata, come di chi scopra ciò che gli dà quella pienezza che da sempre andava cercando. L’amore per la vita semplice, sana ed onesta, incarnata dalla figura del contadino ingenuo, ma che sa vivere e scegliere i valori che contano, trova la sua voce in brani come “La canzone della terra” o “Le allettanti promesse”, entrambe del 1973. Quest’ultimo si segnala per la sua corrosiva e divertita critica del provincialismo italico, che attanaglia l’uomo nelle sue ipocrisie, meschinerie e lotte di potere locale. “Io non ci sto”, grida Battisti. Fuga dalla volgarità, da ogni bigottismo, dal perfido pettegolezzo e dall’invidia sociale. Desiderio di libertà, individualismo anarchico misto a misantropia. Ricerca di una dimensione esistenziale autentica, con coraggio e sete di sensazioni. “E se davvero tu vuoi vivere una vita luminosa e più fragrante / cancella col coraggio quella supplica dagli occhi (“La collina dei ciliegi”, 1973). Tema che ritroviamo nella più tarda produzione battistiana, nel periodo della collaborazione con Pasquale Panella: “Non dobbiamo avere pazienza / ma accampare pretese intorno a noi / come un assedio / ed essere aggrediti dalle voglie più voluminose” (“La sposa occidentale”).

Si legga il testo di “Ma è un canto brasileiro” (1973) e, mentre il suo ritmo ci inebria, ascoltiamo Battisti cantare: “Non ti voglio più vedere, cara, / mentre sorseggi un’aranciata amara / con l’espressione estasiata / di chi ha raggiunto finalmente un traguardo nella vita”; oppure: “io non ti voglio più vedere sul muro / davanti ad un bucato / dove qualcuno ci ha disegnato / pornografia a buon mercato”; o ancora: “mentre parli sei una semplice comparsa / vestito da dottore / che brutta farsa / ti fanno alimentare l’ignoranza / fingendo di servirsi della scienza”. Critica della pubblicità, della più generale e pervasiva logica mercantile che, fuoriuscita dalla sfera economica, diventa norma di condotta nella vita quotidiana. Si denuncia, a suon di eccitanti schitarrate elettriche e di organo Hammond, la perdita di dignità per la donna, che stava consumandosi silente e sotterranea in un’epoca, gli anni Settanta, in cui se ne reclamava l’emancipazione e si pensava di conquistarla una volta per tutte. Senza tetri moralismi, si teme però la mercificazione del corpo femminile in nome di un’esistenza in cui, ormai, solo il denaro e l’apparenza sembrano avere importanza. Si è perso di vista il senso profondo e genuino delle cose, secondo cui ciò che conta davvero era ed è l’amore tra due persone lontane da cerebralismi esibiti e bisogni indotti.

Con le parole di Mogol, Battisti ha messo più volte in musica la sempre nuova sempre antica querelle tra maschi e femmine e società. Si scopre qualcosa di interessante in canzoni come la già citata “Due mondi” (“Ah!, sarei cosa tua!?! / Amore gelosia / amor di borghesia / da femmina latina a donna americana, / non cambia molto sai!”) o la travolgente “Elena no” del 1971 (“detersivi blu / devo saperne di più! / Elena no, Elena no / se sono un uomo più non lo so / Non sgridarmi, faccio quello che vuoi, / non mi ribellerò mai / […] i tuoi diritti sacrosanti, lo sai, / son diventati miei doveri oramai”; “mi hai detto: / diventa un uomo medio americano e tu / tu più ci vivi e sarai. / Cosa diverrò? / Giuro non lo so. / Io so solo che / tutto quello che faccio / io lo faccio solo per avere te! Uuhh!”).

Canzoni in cui risiede la felice e profonda intuizione che un paradosso stava per prendere forma nei “rivoluzionari” anni Settanta, trasformando per sempre costumi e mentalità della società italiana. Dietro la contestazione di ciò che era “borghese”, come si diceva con tono sprezzante da parte di sessantottini, femministe e dintorni, si insinuava l’affermazione di un modello consumistico che pareggiava, sì, tutti (aspirazione giuridicamente sacrosanta), ma verso il basso (ventre) e a scapito di un certo equilibrio che natura dettava dentro noi. Insomma, se proprio si vuol usare il termine “borghese”, ecco che si preannunciava in quelle “canzonette” l’era iper-borghese o post-borghese della società italiana e dei rapporti tra uomini e donne. Il collettivismo ha, sì, infine attecchito, ma quello del consumatore e dell’impiegato, per Battisti e Mogol non molto meno deleterio di quello del lavoratore proletario ad avvenuta espropriazione del capitalista (lui, sì, “borghese”!). La contestazione antiborghese andava a trasformarsi nel cavallo di Troia dell’americanizzazione della società italiana, vale a dire del suo definitivo, irreversibile imborghesimento, e forse travolgendo la donna ancor prima dell’uomo. Tutti irretiti dentro libertà ingannevoli.

Come è stato detto da alcuni protagonisti del movimento studentesco di quegli anni, Lucio carezzava come altri mai le corde del cuore dei giovani e ne strozzava quelle della fede politica e dell’ideologia. Ora forse cominciamo a capire un po’ di più il perché… Insomma, da quelle canzoni straripa una corrosiva satira politica e sociale, e non di rado in contrasto con chi, in quegli stessi anni, a sua volta intendeva irridere i potenti di turno. In Battisti albergava il vero spirito libero e indipendente di chi già intravedeva nuove mode e conformismi dietro l’anticonformismo ufficiale.

Quindi, l’ascolto di Battisti sarebbe molto più efficace, nonché piacevole, di un saggio di Marcuse? Direi di sì. Di certo, infinitamente più scandaloso e politicamente scorretto. Strano! Non si direbbe raccogliendo l’immagine, che circola per la strada, la stampa e la tv, del Battisti che fu. In un’intervista rilasciata nel 1974, Battisti dichiarava: “Mi considero uno stimolo, ognuno poi reagisce col suo metro, con la sua volontà, con la sua cultura”. Noi abbiamo reagito; da tempo. Per chi non l’avesse ancora fatto: basta ascoltarlo. O riascoltarlo. Buon compleanno Lucio.

 

Commento (1)

  • pantera74
    pantera74
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    Carissimo Prof. Breschi,
    confesso che non conoscevo di questo rifiuto da parte di Battisti di ben 2 miliardi di lire. Chapeaux, per Lucio :-)))
    Ps: qual’e’ la Sua canzone preferita di Lucio Battisti?

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