di Alessandro Campi

Enzo Jannacci, Franco Califano. Milano, Roma. La sinistra, la destra. La parte del Paese intellettuale e laboriosa, quella popolana e un po’ volgare. L’impegno civile di chi ha dato voce agli ultimi della società e con ironia ha sbeffeggiato il potere, il qualunquismo o l’indifferenza civica di chi si è limitato a mettere l’amore in versi (e si è goduto la vita tra belle donne e bravate con gli amici). Il Milan, l’Inter, perché il calcio non manca mai. Insomma, l’Italia eternamente divisa, anche nel momento del dolore e del ricordo, l’Italia delle tribù che si sopportano ma non si amano, che forse nemmeno si capiscono, e che perciò tendono ad ignorarsi. Nella vita sociale, nei gusti culturali e nei comportamenti quotidiani, ma inevitabilmente anche nella politica e nei grandi momenti di raccoglimento collettivo. Ognuno piange i suoi.

La scomparsa pressoché contestuale di due protagonisti della scena canora nazionale, entrambi molto amati dagli appassionati di musica e apprezzati dalla critica, ma tanto diversi per formazione e stile, dalle carriere professionali e dalle esperienze di vita anch’esse assai divergenti, ha sollecitato una valanga di commenti e riflessioni. Sui mezzi d’informazione, l’addio commosso degli amici si è accompagnato al rammarico delle gente comune per la perdita di due grandi autori le cui canzoni – come si dice sempre in questi casi, con qualche esagerazione retorica – sono state la colonna sonora della giovinezza di tanti italiani. Inevitabile, in momenti del genere, il prevalere della nostalgia e del rimpianto personali, scambiati per dolore autentico nei confronti di persone che non si sono mai direttamente conosciute.

Ma a colpire più di ogni altra cosa – in questa simultanea dipartita, certo casuale ma inevitabilmente evocativa di pensieri che vanno oltre la brutale notizia di un artista che muore – è stato appunto il simbolismo implicito che a tutti è apparso evidente leggendo in controluce i due lutti. E che si riassume in ciò: esistono ben vive, ed è un’eredità storica che viene da lontano, due Italie gelose della loro diversità, che magari segretamente hanno punti di sovrapposizione e concordia, ma che ufficialmente preferiscono restare separate, impegnate a coltivare i rispettivi pregiudizi. Che tendono a rappresentarsi e presentarsi come alternative, o semplicemente distanti e separate, fatto salvo il reciproco rispetto di facciata.

Sui giornali di ieri si leggeva, e sembrerebbe un dettaglio di cronaca, che nessun politico di sinistra s’è recato ai funerali di Califano. Il che non significa evidentemente che a sinistra nessuno ami o abbia amato le sue canzoni. Quale sorpresa quando dalle loro confessioni si scoprì che persino i brigatisti, nei momenti di relax, preferivano ascoltare Lucio Battisti invece che gli Area o Claudio Lolli – per dire di un’altra situazione nella quale si discusse un analogo dilemma, di natura per così dire etico-civile, circa i gusti e le preferenze musicali o di svago dei singoli, che per definizione travalicano le ideologie e le appartenenze tribali.

Ma rendere omaggio pubblico ad una personalità che si ritiene lontana dalla propria visione del mondo, o inconciliabile con essa, è appunto un’altra cosa: un cedimento che non ci si può permettere, dovendo salvaguardare la propria rispettabilità e al tempo steso evitare di urtare la suscettibilità dei membri del proprio clan. D’altronde nessun politico di destra, nessun pubblico rappresentante di quell’area, per fare un esempio, andò nel gennaio 1999 ai funerali di Fabrizio De Andrè, che certo piaceva da matti ai giovani di destra per la sua vena anarchica, ma che nell’iconografia nazionale era rubricato come appartenente all’opposta fazione politica. Come tale dunque non meritevole di un pubblico e finale tributo.

E sì che sarebbe facile e doveroso, in una realtà politico-sociale meno frammentata della nostra, purtroppo ormai ad ogni livello, da quello territoriale a quello civile, considerare la cultura e chi la rappresenta – anche un cantante o un attore – un patrimonio condiviso, di tutti. Ma evidentemente siamo una nazione divisa che si compiace di esserlo, e che forse ha nello scontro interno tra gruppi e parti, nella partigianeria che diventa volentieri faziosità, il segreto della propria storia.

L’Italia di Dario Fo (che ha pianto Jannacci) e l’Italia di Maurizio Mattioli (che si è commossa per Califano) forse sono meno diverse, nella vita reale, della immagine che ne viene data ad opera dei loro diretti rappresentanti: diverse espressioni d’un modo d’essere in entrambi i casi popolare e schietto, che certo risente il peso di tradizioni storiche a loro volta diverse, ma senza che ciò indichi l’esistenza di gerarchie antropologiche o culturali, o l’impossibilità a confrontarsi e a rispettarsi, a considerarsi parte di una stessa comunità civile e politica. E non si tratta, beninteso, di ricercare la concordia e il consenso ad ogni costo, o di voler azzerare ogni linea di divisione, inevitabile in qualunque società. Il conflitto, come suole dirsi, è il sale della politica e della democrazia. Il problema è quando dalla lotta si passa all’odio sordo tra i gruppi, quando dallo scontro si travalica nel disprezzo per l’altra parte, quando la legittima diversità delle idee si tramuta nell’impossibilità di qualunque forma di dialogo o collaborazione. Con le conseguenze politiche nefaste che anche in questi giorni, di totale e colpevole incomunicabilità tra i partiti, abbiamo sotto gli occhi. Chissà se Jannacci e Califano, almeno loro, si stimavano e si ascoltavano l’un l’altro, e si consideravano parti diverse ma integranti d’uno stesso mondo.

* Articolo apparso sul quotidiano “Il Messaggero” (Roma) del 4 aprile 2013.

 

 

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