di Alessandro Campi
Mancano pochi mesi al voto per il rinnovo del Parlamento europeo. Tutti gli osservatori prevedono – con toni sempre più preoccupati – una consistente avanzata elettorale, nei diversi Paesi, delle formazioni politiche di matrice radicale e populista. Si tratta di partiti che spesso hanno basi ideologiche molte diverse tra di loro (si va dall’estrema destra all’estrema sinistra, passando per realtà di difficile classificazione come nel caso dei grillini in Italia), ma che nell’Europa hanno trovato il loro comune bersaglio polemico. Da movimenti di protesta, in grado di mobilitare poche migliaia di militanti e sostenitori, sono diventate realtà organizzate di massa la cui capacità di presa sull’opinione pubblica è enormemente cresciuta col deflagrare della crisi economico-sociale nella quale siamo immersi da anni.
Le tesi che essi sostengono, con toni martellanti e slogan spesso efficaci, sono note: accusano la moneta unica di aver impoverito le economie degli Stati membri; vedono nella tecno-burocrazia di Bruxelles una struttura di potere che opera fuori dalle regole della democrazia e decide in modo anonimo sul destino di milioni di cittadini; considerano l’odierna costruzione europea il frutto non di un progetto politico legittimato dal consenso popolare e da grandi ideali, ma di un disegno ispirato da un’oligarchia priva di radici nazionali, insensibile ai problemi della gente comune e interessata unicamente ad accrescere le proprie ricchezze; indicano nei banchieri, negli esponenti dell’alta finanza e nei lobbisti al soldo delle multinazionali i veri padroni del continente, non certo nei parlamentari eletti; ritengono che la macchina istituzionale europea, con i suoi esorbitanti costi di gestione e la sua labirintica articolazione amministrativa, non faccia altro che sprecare i soldi dei contribuenti europei.
Quello che non appare chiaro – mentre la scadenza elettorale si avvicina – è in che modo i partiti cosiddetti europeisti, a partire da quelli che si riconoscono nelle grandi famiglie dei socialisti e dei popolari, intendano affrontare la sfida lanciata dai loro agguerriti competitori sulla base degli argomenti appena richiamati. Basta lanciare l’allarme per scuotere le coscienze degli elettori e convincerli a non farsi tentare dal vento della protesta antieuropea?
Cercare di isolare politicamente le formazioni estremistiche, denunciandole pubblicamente come un pericolo per la democrazia e la civile convivenza, che è la strada che si sta imboccando in Italia con Grillo e il M5S e che a suo tempo fu seguita con l’austriaco Haider, rischia di essere oggi una strategia perdente. Da un lato, bisogna rendersi conto di quanto sia cambiato il clima collettivo nell’arco di pochi anni: gli avversari dell’Europa erano una minoranza che si faceva sentire soprattutto nei circoli intellettuali agitando argomentazioni raffinate, la gravità della crisi finanziaria li ha trasformati in una realtà politica che miete consensi in tutti gli strati sociali sulla base di poche parole d’ordine.
Dall’altro, mettendo metaforicamente al bando tali formazioni si finisce per rafforzarle e per esaltarne, agli occhi degli elettori, la diversità e la novità. Questi partiti vivono infatti della contrapposizione manichea, tipicamente populista e retoricamente assai efficace, tra Noi (i buoni, i contestatori che perseguono verità e giustizia, coloro che non hanno potere e combattono dalla parte dei cittadini, il nuovo che annuncia il futuro) e Loro (i cattivi, il sistema difeso dai politici di professione, i corrotti che badano solo ai loro interessi, il vecchio che difende il passato). La rabbia che li alimenta non può che rafforzarsi se le istituzioni tradizionali si chiudono a riccio a fronte delle istanze (e dei cittadini) che rappresentano.
Nemmeno si può pensare di ricorrere ad artifici tecnico-elettorali per cercare di contenerne la crescita o per depotenziarne la presenza parlamentare. In questo caso si rischia di alterare il consenso popolare con l’idea di difendere la democrazia dai suoi potenziali nemici. Il populismo contemporaneo, di destra e di sinistra, non ha nulla a che fare con l’autoritarismo politico e le ideologie totalitarie: non avversa la democrazia sul piano dei principi ispiratori, persegue semmai l’ideale di una democrazia più autentica. Ciò significa, per restare in Italia, che la nuova legge elettorale in discussione non può essere concepita – come forse qualcuno in cuor suo immagina o spera – come un inghippo procedurale per frenare Grillo in modo artificioso. L’impianto bipolare che la sottende dovrebbe piuttosto essere considerato come l’ultima occasione offerta al centrosinistra e al centrodestra per cercare di aggregarsi sulla base di un’offerta politicamente credibile, per dare vita a due poli che siano competitivi (oltre che sul piano della leadership) su quello delle idee e dei programmi.
In realtà, per affrontare con qualche speranza di vittoria l’imminente battaglia elettorale contro i nemici dichiarati dell’Europa non c’è che una strada: prendere sul serio le loro critiche, invece che snobbarle o denunciarle come eversive dell’ordine stabilito. Bisognerebbe chiedersi, piuttosto che rifugiarsi nell’europeismo retorico tipico dei discorsi ufficiali, se per caso non abbiano ragione coloro che, guardando a come funzionano le istituzioni europee, ne denunciano il deficit di democrazia e di trasparenza, la sottomissione alle lobbies e agli interessi economico-finanziari organizzati, gli sprechi e la lontananza dal comune sentire della gente. Non c’è dubbio che a certe condizioni il realismo cupo e disincantato degli euroscettici sia da preferire all’ottimismo ingenuo dei partigiani ad oltranza e privi di dubbi dell’Europa: i primi denunciano mali effettivi (anche se talvolta invocano ricette irrealistiche o di difficile praticabilità, come abolire l’euro e tornare alla divise nazionali), i secondi si accontentano spesso di discorsi edificanti su un’Europa che sarebbe la soluzione a tutti i nostri mali e della quale non vogliono vedere le contraddizioni e gli errori. I che spiega perché i primi crescono nei consensi mentre i secondi non riescono a rendere convincenti le loro posizioni.
Per frenare l’onda del populismo antieuropeo quello che servirebbe è insomma un europeismo finalmente (auto)critico, che ragioni su come modificare processi decisionali che talvolta sembrano guidati da una burocrazia ottusa, su come restituire sostanza politica e ideale al progetto europeo, su come evitare la deriva in senso oligarchico-tecnocratico delle istituzioni comunitarie. Non abbiamo bisogno di più Europa, come spesso si sostiene in modo insopportabilmente enfatico, ma di un’Europa diversa rispetto all’attuale: democratica, sociale, liberale e federale. Ma i partiti tradizionali, a quanto pare, di fare autocritica sul loro modo convenzionale di intendere l’Europa non hanno alcuna intenzione. Ed è la ragione per cui verranno probabilmente puniti dagli elettori.
*Articolo apparso il 3 febbraio 2014 sui quotidiani “Il Messaggero” (Roma) e “Il Mattino” (Napoli)
Commento (1)
Federico
Bravo prof. Campi! E se l’Europa diversa si traducesse in una proposta neo feder(e)alista da presentare in un convegno?