di Danilo Breschi

Da alcuni anni, da quando è scoppiata la crisi tra 2007 e 2008, tra America ed Europa s’è fatto un gran parlare di analogia tra l’oggi e il 1929, ossia la “Grande Crisi” per antonomasia del capitalismo occidentale. Sono stati versati fiumi d’inchiostro e di parole, su carta stampata, in tv e sulla rete, per spiegare in cosa e come questa nostra crisi ricordasse quella passata, ne fosse inferiore o superiore per durata e gravità.

Non intendo certo in questa sede cimentarmi in analisi economiche che non sono di mia competenza e su cui chiunque potrà documentarsi recuperando gli articoli e i dibattiti prodotti negli ultimi cinque anni. Mi limito a proporre una riflessione da storico che vola basso, quasi rasoterra, e dico sin da subito che il 1929 fu molto, ma molto peggio. E non mi riferisco tanto ai dati economici, che comunque furono devastanti per tante nazioni, a partire dagli Stati Uniti per finire alla Germania, come testimonia anche una letteratura che annovera, per quanto riguarda ad esempio il racconto dell’America della Grande Depressione, i potenti romanzi di John Steinbeck. Su tutti: “Furore”, traduzione italiana di un titolo in inglese ancor più evocativo della tragedia che narra: “I frutti (o grappoli) dell’ira”, che a sua volta riecheggia un passo dell’Apocalisse.

Quando si parla di 1929, infatti, bisognerebbe sempre ricordare cosa stava accadendo da un paio di decenni e cosa sarebbe ancora accaduto per altri quindici/sedici anni, in America e soprattutto in Europa. Pochi giorni fa è stato pubblicato da “MicroMega”, nell’ultimo almanacco di filosofia, uno splendido saggio di George Steiner, scrittore e saggista, tra i più colti e raffinati studiosi di letteratura (e civiltà) comparata. Ebbene, mi avvalgo qui della sua forza di sintesi e trascrivo: “Secondo le stime, tra l’agosto 1914 e il maggio 1945 guerre, deportazioni, carestie, stragi ideologiche e razziali causarono la morte di circa settanta milioni di persone tra uomini, donne e bambini. Il massacro si estese da Madrid alla Siberia, da Copenhagen a Palermo. È possibile affermarlo, e anche discuterne l’aritmetica. Ma non credo sia possibile annettergli un significato e tanto meno delle immagini concrete. È un retaggio mentale che continua a essere incommensurabile”.

Siamo a pochi giorni dalla ricorrenza della Giornata della Memoria, e dalla commemorazione dell’indicibile orrore di Auschwitz e di tutti i campi di annientamento dove si perpetrò lo stermino di milioni e milioni di ebrei. Un orrore di morte e distruzione che era diventato macabro patrimonio di Stati sin dalla prima guerra mondiale, a cui si aggiunse lo specifico dell’odio razziale, quasi “ontologico”, scrive Steiner, tale per cui “l’ebreo doveva essere eliminato semplicemente perché era”. E conveniamo con lui che durante quel trentennio compreso tra 1914 e 1945, e dentro cui sta la crisi economica del 1929, “la soglia dell’umanità è stata abbassata”.

Di più: “la promessa di compensazione in un altro mondo, di risarcimento o castigo sovrannaturale, dopo Auschwitz e i Gulag, dopo Dresda e Hiroshima, appare non solo puerile, ma moralmente disgustosa. E soprattutto, la morte stessa è stata svalutata. La sentenza di Stalin suona definitiva: ‘La morte di un uomo può essere una tragedia. La morte di un milione è una statistica’”.

È nota la difficoltà della teologia e, a maggior ragione, della teodicea nel rendere conto dell’esistenza di Dio, tanto più di un Dio buono e giusto, dopo simili massacri, permessi in quantità industriale e che non si sono fermati nemmeno dopo il ’45, solo si sono spostati fuori dai confini di un’Europa che, in ogni caso, si è divisa in due metà, e una di queste ha assistito al soffocamento delle libertà e dei diritti, non di rado anche delle vite, di milioni di donne e uomini per ancora diversi decenni. Si leggano, ad esempio, i romanzi di Vasilij Grossman.

Non so se la crisi che viviamo segnerà o meno la fine dell’economia capitalistica mondiale, ma è certo che quella italiana è solo in minima parte figlia di quanto è successo con i mutui subprime negli Stati Uniti a partire dall’estate del 2007. La crisi finanziaria rimbalzata da una sponda all’altra dell’Atlantico, combinata con le conseguenze degli impegni ed obblighi europei assunti da Maastricht in poi, ha soltanto messo a nudo i nostri deficit strutturali, dal debito alla scarsa competitività. La globalizzazione dispiegatasi compiutamente dopo il crollo del muro di Berlino e la fine dell’impero sovietico ha, dopo vent’anni, dato il suo bel contribuito in questa spoliazione di ogni nostra residua beata incoscienza o vana sicumera su un’Italia sesta o settimana potenza economica mondiale. Messi in connessione con il resto del mondo non reggiamo il passo come sistema-Paese, ma solo come singole aziende in singoli settori. Qui manteniamo alcune eccellenze.

Detto ciò, non moriremo di questo, nonostante tutti i partiti e i movimenti impegnati nell’attuale campagna elettorale abbiano interesse ad accentuare la gravità della nostra crisi per meglio far risaltare le promesse di uscita dal tunnel che i loro pseudo-programmi abbozzano in modo più o meno suadente. Nessuno di loro è in grado di raddrizzare la situazione e invertire la rotta, ammesso e non concesso ne abbia la volontà. Qualora ne avessero, e ce ne vorrebbe in abbondanza, mancherebbe loro la macchina istituzionale per agire, per delimitare, ad esempio, quel “parlamentarismo” già denunciato negli anni Settanta dell’Ottocento e inteso, all’epoca, come cedimento del governo centrale alle richieste di favori che provenivano dalla periferia rappresentata dal deputato, sorta di mandatario delle oligarchie locali, non sempre ineccepibili in tema di legalità, ieri come oggi. Ma questo è solo uno dei nostri mali atavici.

La situazione economica italiana si dibatterà ancora a lungo tra stagnazione e recessione, soprattutto sul piano dei consumi, anche se basterebbe (relativamente) poco per tornare ad incentivare un italiano medio tradizionalmente propenso all’acquisto e al consumo di beni anche voluttuari. Ma se qualcosa dovremmo insegnare ai più giovani è a non vendere l’anima prima del tempo. A non deprimersi anzitempo può servire la memoria del passato di orrore disumano, povertà estrema e miseria non solo economica, ma anche morale, che ha spazzato via intere generazioni nel corso del Novecento. E la miseria morale morde forte quanto quella materiale, e l’una va a braccetto con l’altra. Per le cose italiane, e di confine, rimando alla lettura di “Kaputt” e “La Pelle” di Malaparte.

Il mondo ha imparato la lezione di Auschwitz? – è stato chiesto pochi giorni fa a Elie Wiesel: “La risposta, oggi come allora, è no. Come si spiegherebbero altrimenti Cambogia, Bosnia, Ruanda, Kosovo, Sudan e Siria?”. Ciò nonostante, nessuna resa al male, tanto da dichiarare: “Coltiverò sempre i semi della speranza”. Insomma, se di crisi grave, devastante, dobbiamo parlare, volgiamo allora lo sguardo fuori d’Europa, ad esempio in Sudan, Mali e in tante altre parti dell’Africa, per non dire di altri continenti, e ancora una volta riportiamo alle sue giuste proporzioni la percezione della nostra condizione attuale di italiani (ed europei) in fase di recessione e/o stagnazione. La parola d’ordine è ridimensionare e sdrammatizzare. Per essere sia giusti ed equilibrati nel giudizio, sia sereni e sgombri nell’animo quel tanto che occorre per ripartire ed avviare la ripresa.

Per commemorare questa Giornata, far sì che abbia davvero l’iniziale maiuscola, prendiamo l’ultimo libro di Elie Wiesel, appena uscito da Bompiani: “A cuore aperto”; e leggiamolo. E magari riprendiamo anche le pagine del suo libro più celebre e disperante, “La Notte”, e capiremo quanta luce già ci sia oggi, nel tunnel della nostra “piccola” crisi di denaro e lavoro, e cerchiamo di non commettere mai, in parole, opere e omissioni, il peccato capitale di confondere il buio di qualche luminaria in meno, spenta in città per esigenze di austerità e risparmio energetico, con l’oscurità dei Lager, dei Gulag, dei Laogai, di ieri e di oggi. Meglio l’austerità del risparmio forzato che l’oscurità delle tenebre conficcate nella carne e nell’anima di milioni di esseri umani. Si esce, prima o poi, da entrambe, ma nel primo caso senza quelle indelebili degradazioni che annichiliscono la condizione umana. No, non è vero che si stava meglio quando si stava peggio. Si stava peggio, molto peggio. Pensiamo a ripartire. Punto e basta.

 

Commenti (3)

  • pantera74
    pantera74
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    Carissimo Prof. Breschi,
    ho letto con molta attenzione ed interesse, come sempre, il Suo articolo.
    Il concetto che esso esprime e’ sicuramente nuovo, profondo, assai istruttivo.
    D’altra parte, pero’ reca con se’un messaggio facilmente, a mio giudizio, mal interpretabile. Mi riferisco alla frase ” La parola d’ordine è ridimensionare e sdrammatizzare “. Essa potrebbe diventare un’arma potentissima nella mani di chi, specialmente in quest’ultimi anni, sta ponendo in essere un piano criminale, pari nelle proporzioni ai terribili eventi da Lei citati, per accentuare le gia’ profonde disuguaglianze tra un’oligarchia mondiale ed il resto del mondo. Non vorrei che il messagio ispirato all’ uguaglianza e alla democrazia di cui al Suo precedente articolo, fosse soffocato da un’errata interpretazione di lettori poco attenti.
    La ringrazio per la Sua attenzione e con Lei mi compliemnto per i suoi acutissimi, originali pensieri, espressi per’altro in un italiano, toscaneggiante, assai godibile.
    Ad maiora

  • Danilo Breschi
    Danilo Breschi
    Rispondi

    Grazie “Pantera74” per il Suo commento.
    La frase che cita è indubbiamente netta e perentoria, anche mal interpretabile, se vuole. Dipende sempre dall’obiettivo che si sceglie per ogni singolo articolo.
    In questo caso la mia intenzione (che so bene Lei ha colto in pieno) era, ed è, quella di esortare – soprattutto i più giovani – a non cedere psicologicamente all’idea di una crisi irreversibile, certamente anche sul piano del ridimensionamento drastico del Welfare europeo (vedi ultimo libro di Federico Rampini).
    Quel che avverto intorno a noi è un atteggiamento, mentale ancor prima che pratico, di resa. Questo atteggiamento rischia di essere il primo alleato di ogni atto di destruttuazione dei sistemi liberaldemocratici occidentali e dei valori sui quali sono fondati.
    Ma, ripeto, non condivido l’equiparazione dei guasti odierni a quanto accaduto nella prima parte del Novecento (e oltre, fuori d’Europa).
    Una certa dose di rabbia e indignazione aiuta, l’overdose – anche di sentimenti buoni e giusti – è sempre overdose, e porta al suicidio. Favore supremo a chi gode della crisi odierna. Per qualsiasi lotta efficace e che vada a bersaglio, senza che degeneri in autodistruzione o negazione di quanto affermato in partenza, ci vuole lucidità e misura.
    Sursum corda

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