di Danilo Breschi

Nel suo più recente articolo apparso su IdP, “Berlinguer, la Sinistra e la decrescita”, Andrea Colasuonno definisce addirittura come “avanguardistiche” le idee di Enrico Berlinguer in tema di “austerità”. E cita, quale esempio, la seguente affermazione: “L’austerità non è oggi un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per superare una difficoltà temporanea e poter consentire la ripresa e il ripristino di vecchi meccanismi economici e sociali. […] Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo […], quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato”.

Potremmo aggiungere anche un’altra più roboante e romantica dichiarazione, rilasciata dal segretario comunista nella famosa intervista ad Eugenio Scalfari dell’agosto del 1978: “Noi vogliamo arrivare a realizzare qui, nell’Occidente europeo, un assetto economico, sociale, statale non più capitalistico, ma che non ricalchi alcuna delle esperienze socialiste finora realizzate e che, allo stesso tempo, non si riduca a consumare esperimenti di tipo socialdemocratico, i quali si sono limitati alla gestione del capitalismo”. Insomma, la via italiana al socialismo.

Ha ragione Colasuonno nell’associare l’idea berlingueriana di “austerità” a quella di “decrescita”, anche perché, come egli stesso ricorda, è lo stesso Serge Latouche a indicare in Berlinguer “un alleato e un precursore di quella che è attualmente la sua proposta”. Mi permetto un’annotazione a margine dell’articolo. C’è qualcosa di nuovo, anzi di antico, nelle tesi di Berlinguer, come in quelle di Latouche: il mito secondo il quale una drastica riduzione dello sviluppo economico porterebbe ad una maggiore umanizzazione della società. Dietro l’eccessiva circolazione di denaro si agiterebbero i demoni dell’avidità e dell’egoismo sociale, e l’abbondanza ottunderebbe e devierebbe le anime e distruggerebbe ogni sentire comune votato al bene altrui e alla solidarietà. C’è qualcosa di religioso, molto religioso, in tutto questo modo di ragionare.

È un mito che implica sempre una qualche forma di pianificazione economica e politica, come dimostrano anche le 8 “r” della “decrescita”, opportunamente richiamate da Colasuonno: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare/riciclare. Si tratta di tornare a potenziare lo Stato rispetto alla società, magari uno Stato diverso, occupato da donne e uomini diversi, ma sempre e comunque una macchina organizzativa di proporzioni non indifferenti, se è vero che si tratta di cambiare un intero sistema di produzione, distribuzione e gestione della ricchezza. Quanto ai valori da modificare, siamo di fronte all’antica esigenza di frugalità che pervase ampi strati di uomini di lettere ai primi avvisi di quella che poi sarebbe stata la rivoluzione industriale che tra Sette e Ottocento travolse l’intera società europea occidentale, a cominciare dall’Inghilterra.

Già da secoli quella terra, come l’Europa tutta, era stata attraversata dalla esigenza cristiana di ricordare che l’amore delle cose del mondo era la via che conduceva alla perdizione. “Disprezza le ricchezze terrene, perché tu possa acquistare quelle celesti”, così parlava Bernardo di Chiaravalle. La Riforma non mutò tale attitudine anticapitalistica e antimaterialistica. I puritani inglesi al di qua e al di là dell’Atlantico non mancarono mai di esaltare la vita rurale e di criticare lo sviluppo del commercio. Eppure qualche mutazione profonda avvenne, se Tocqueville poté riconoscere, dopo la visita in America, che “l’amore del benessere è come la caratteristica saliente e indelebile delle età democratiche”.

Desta però molte perplessità sentire gli italiani parlare con entusiasmo di decrescita, perché essi dovrebbero sentirsi un po’ di più eredi di quella civiltà comunale che proprio nello sviluppo protocapitalistico sperimentò le prime forme di autogoverno repubblicano. E non dimentichiamo un argomento molto forte perché suffragato dall’evidenza storica, dai fatti nudi e crudi: da quando gli esseri umani si sono dotati di regimi politici, le uniche forme di tipo democratico-liberale si sono avute in contesti di sviluppo e crescita economica imponente. Se appunto si esclude il cinquantennio postbellico in Europa, America, Giappone, e in ogni altro Paese che è stato simultaneamente retto a regime politico democratico-rappresentativo e a regime economico capitalistico-consumistico, non si sono conosciuti sistemi che abbiano consentito allargamenti costanti ed effettivi dei diritti di libertà e partecipazione per centinaia di milioni di donne e uomini. Se il benessere di massa non ha equivalso alla pubblica felicità, ne è stato però la maggiore e migliore approssimazione storicamente sperimentata.

Per chiunque voglia argomentare a favore della “decrescita” e accreditarla come “felice”, ma soprattutto compatibile con la democrazia di massa e lo Stato di diritto, dovrà scontrarsi con questa combinazione storica, ovvero fondata su fatti riscontrati e incontrovertibili. Da un lato, ciò che è stato, almeno fino a ieri, dall’altro, l’utopia, l’ancora non-luogo. Si dirà: nemmeno prima del Novecento avevamo sperimentato l’abbinamento tra democrazia e sviluppo inteso come crescita del Pil. E, dunque, ciò potrà pur valere anche per l’inedito abbinamento democrazia+decrescita (o austerità). Perché non pensarla nuova? Nulla osta alla pura teoria.

Quel che però è certo è che anche l’odierna crisi delle democrazie occidentali riconferma, “a contrario”, come a impoverimento dei ceti medi e ad aumento del divario tra le classi corrisponda un indebolimento del consenso alla base dei regimi democratici. Meno ricchezza sa produrre, e quindi distribuire, un sistema produttivo, meno legittimo e “rappresentativo” appare un parlamento democraticamente eletto che di quel sistema costituisce il pendant istituzionale. C’è chi dice che è solo questione di ridistribuire più equamente ricchezze che continuano ad essere prodotte, ma non più allocate secondo giustizia sociale a causa dell’indebolimento delle organizzazioni sindacali e dei meccanismi di welfare, non più difesi o attivati da partiti di sinistra arresisi al liberismo. Ma bisogna anche chiedersi se effettivamente stiamo ancora producendo, in un Paese come l’Italia, gli stessi livelli di ricchezza di un tempo. Fino ad oggi, abbinato a regimi economici frugali abbiamo storicamente conosciuto solo regimi politici di tipo “spartano”, oligarchici, militarizzati e militaristi. Anche la democrazia rurale jeffersoniana era a suo modo opulenta. Il Sud dei neonati Stati Uniti d’America era assai ricco (oltreché schiavistico, ahimè!).

Comprendo però molto bene come queste tematiche della decrescita, dell’austerità, della privazione materiale a vantaggio di arricchimenti spirituali, di modi alternativi di vita, meno quantitativi e più qualitativi, siano così ricorrenti e solitamente ben accolti da vasti e variegati ambiti dell’opinione pubblica nostrana. Siamo da sempre terra di cristianesimo, e molte sue versioni originariamente ereticali, come il francescanesimo, connotate da pauperismo e vario ascetismo, sono qui sorte e qui hanno trovato l’assorbimento e l’istituzionalizzazione nella Chiesa di Roma. Dal secondo dopoguerra in poi la cultura cattolica è stata la principale subcultura politica, assieme a quella comunista, che appunto della comunione dei beni ha sempre fatto la sua stella polare, magari tenuta a distanza siderale (appunto!), a mo’ di ideale regolativo, ma sempre e comunque additata e seguita quale meta ultima, rigenerante un’umanità corrotta (non per peccato originale, in questo caso, ma per artificio politico, sociale ed istituzionale, come insegnò già Rousseau).

In Italia, non ci resta dunque che piangere. E non sto citando lo spassoso film con Benigni e Troisi, no, ma evocando i Piagnoni, seguaci del buon vecchio frate domenicano Girolamo Savonarola, un altro profeta italico di mortificazioni del corpo e ripudio sdegnato della peccaminosa e corruttrice opulenza.

 

 

 

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