di Marta Regalia

imagesCAP49P34Il fascino della scienza politica si nasconde nel suo strettissimo legame con la vita quotidiana. Nell’affrontare qualsiasi ricerca un politologo deve venire a patti con le difficoltà e, spesso, le frustrazioni, della raccolta e dell’analisi dei dati, ma soprattutto con la complessità dell’interpretazione degli stessi. Questo però rappresenta anche il fascino della materia: un viaggio in treno, infatti, può regalare piccole o grandi intuizioni semplicemente origliando, involontariamente, si intende, i dialoghi dei viaggiatori seduti accanto. Ebbene, anche questa mattina il viaggio in treno mi ha insegnato qualcosa. Cosa? Beh, è complicato… procediamo con ordine.

Per prima cosa, dalle pagine del blog di Grillo ho appreso che non è proprio vero, no no no, che i collegi uninominali presuppongano, in maniera necessaria e (avrei aggiunto con un po’ di ardore prima dell’illuminante “post”) sufficiente, formule elettorali maggioritarie. Questo «equivoco» va «sfatato». E con buona pace di Duverger («Duverger chi?»).

Sfatiamolo. Come? E questa è la seconda lezione. Fino al 1994, proprio nel nostro Paese (sì sì, proprio in Italia), i seggi senatoriali erano attribuiti con sistema proporzionale su collegi uninominali. Accipicchia. Non riesco proprio a capire. Rileggo: “i seggi venivano distribuiti proporzionalmente e poi veniva eletto il candidato all’interno di ciascun partito che aveva ottenuto la più alta percentuale nel suo collegio”. Ohibò. A me pareva proprio che il sistema funzionasse diversamente. Ma, all’epoca, ero lontana dall’avere diritto di voto, probabilmente ricordo male… che fare? Mi precipito a recuperare la legge. Ahi ahi ahi… non è possibile… ricordavo bene io! L’art. 17 della legge 6 febbraio 1948, n. 29, infatti, prevedeva che l’unico seggio a disposizione (d’altro canto, si chiama uninominale proprio per quello, no?…) venisse assegnato al candidato che fosse riuscito ad ottenere almeno il 65% dei voti validi. Dove ciò non avveniva, e cioè nella stragrande maggioranza dei casi, i seggi non assegnati venivano attribuiti su base regionale con formula proporzionale d’Hondt, tra liste di candidati tra loro collegati. Una volta attribuiti i seggi alle varie liste, ma solo a quel punto, venivano proclamati vincitori i candidati che avessero «ottenuto la più alta percentuale nel [proprio] collegio». Ancora peggio: in seguito al referendum del 1993, il sistema venne trasformato in un sistema maggioritario uninominale a turno unico, il cosiddetto sistema inglese plurality.

Non importa, una svista. Continuo, ansiosa di apprendere, a leggere. “Così come esistono sistemi su lista che sono maggioritari, per esempio nel caso dell’elezione del Presidente degli Stati Uniti [sì, c’è addirittura un link a wikipedia], che tutti pensano essere eletto direttamente dal popolo, non è così, è eletto dall’assemblea dei grandi elettori”. Ecco, qui incominciano a venirmi dei dubbi. Ci è o ci fa? Non è possibile. Ci deve essere stato qualche errore nell’editing, un copia- incolla mal riuscito… No, l’affermazione ardita è anche argomentata: “Ogni Stato ha un certo numero di grandi elettori, il candidato che prende un voto più degli altri si aggiudica tutti i grandi elettori dello Stato”. E questo sarebbe un sistema proporzionale? «Winner-take-all, la logica tipica delle formule proporzionali», penso con non poca ironia…

Il post prosegue enucleando i vantaggi e gli svantaggi derivanti dalle dimensioni ridotte o estese del collegio elettorale, ma non voglio andare oltre. Per oggi ho imparato abbastanza. Sono di memoria labile, preferisco fissare bene i concetti e poi proseguire.

Mi fermo a pensare, guardando il sole sorgere fuori dal finestrino: è solo ignorante oppure ci prende in giro? La seconda ipotesi fa riferimento al voto online di due giorni fa. Se così fosse, la strategia potrebbe essere quella di dividere coloro che hanno preferito un sistema proporzionale e sono risultati, quelli sì, maggioritari, tra le due altre opzioni concesse all’elettorato grillino (“collegio nazionale o intermedio”) e tentare il colpaccio facendo passare il collegio uninominale, e, quindi, per forza di cose, permettendo alla soluzione “maggioritaria”, cacciata dalla porta, di rientrare dalla finestra. Oppure siamo di fronte, e questo è ciò che temo di più, a pura, sana, vera, estrema ignoranza. Se così fosse, seguendo la massima di Krasner che ci ricorda che “Stupidity is not a very interesting analytic category”, smetto di farmi domande e passo oltre.

Tuttavia mi resta una preoccupazione. Se queste sono le analisi ed i consigli che a Grillo arrivano da «gli esperti, i cattedratici» a cui dice di rivolgersi, come ha urlato anche ieri in conferenza stampa («non lo dico mica io»), siamo proprio sicuri che tutte le altre ricette in materia economica, fiscale, ambientale etc. che propone non siano altrettanto ridicole?

Concludo con una amara riflessione che deve suonare come un rimprovero agli scienziati politici che faticano a farsi politologi. Cosa ho davvero imparato? Ho imparato che la Scienza politica italiana, nonostante i (più di) quarant’anni di servizio (non mi azzardo ad aggettivare), non è ancora riuscita a intaccare lo «stato arcaico di adamantina, autentica sotto-conoscenza», come scriveva Giovanni Sartori nel lontano 1970. Rimbocchiamoci le maniche: c’è ancora molto lavoro da fare.

 

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