di Danilo Breschi
1915: che cosa successe tra il 26 aprile, firma del Patto di Londra, e il 24 maggio, ingresso dell’Italia in guerra contro l’Austria-Ungheria? Questo è il tema che non poteva sollecitare gli storici italiani in occasione della ricorrenza centenaria. In particolare, gli studiosi della storia delle relazioni internazionali. Mi soffermo qui, nello specifico, su due testi, entrambi agili e al tempo stesso molto densi. Studi che colgono con acume e profondità i nessi fra politica interna e situazione internazionale, due ambiti che regolarmente si condizionano a vicenda. Mi riferisco ai volumi di Antonio Varsori (Radioso maggio. Come l’Italia entrò in guerra, il Mulino, Bologna 2015, pp. 216) e di Giorgio Petracchi (1915. L’Italia entra in guerra, Della Porta Editori, Pisa 2015, pp. 229).
Il libro di Varsori si concentra maggiormente su quel mese fatidico, anche se non può non dar conto di quanto maturato nell’anno precedente, anzi nel decennio precedente; persino nel cinquantennio precedente. Come nello studio di Petracchi, non si può non evidenziare quando e come fu preso, in Italia e in Europa, l’abbrivio che condusse allo scoppio della guerra mondiale, ben oltre il casus belli dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este a Sarajevo quel fatidico 28 giugno del 1914.
Dicevamo dei nessi stretti fra politica estera e interna, e come l’una influenzi l’altra in modo continuo. Con riferimento al caso italiano si tenga poi conto che, come ci ricorda Varsori, “l’intera vicenda risorgimentale era stata segnata dal ruolo centrale che la politica estera aveva giocato nella formazione del nuovo stato italiano”. Nonostante l’unificazione fosse stata ottenuta grazie al decisivo contributo straniero, la classe dirigente del neonato stato unitario alimentò a lungo il sogno e “l’ossessione” di fare dell’Italia una “grande potenza” nel concerto europeo delle nazioni, quasi si trattasse di un destino tanto ineluttabile quanto agevole da realizzarsi. Ne seguì, al contrario, un lungo periodo di isolamento e quindi di marginalità sul piano internazionale. Alle aspettative frustrate della classe dirigente si sommarono nel cinquantennio postunitario le conseguenti aspettative delle nuove leve intellettuali, uscite dalle scuole superiori e dalle università del regno d’Italia infarciti di retorica carducciana. La frustrazione dei giovani si ritorse contro le stesse élites di governo, giudicate inette al compito di costruire una “grande Italia”. Su Giolitti, il quale “non comprese come dall’inizio della sua leadership il paese fosse mutato”, e sulla sua politica si catalizzò quasi l’intero arco di forze politiche e culturali dell’epoca. Divenne il nemico comune per obiettivi finali divergenti, spesso opposti. Ne conseguì per istituzioni e società una sorta di squartamento, lento e continuo.
Dentro questa latente guerra civile, resasi palese nel corso della conquista della Libia, si svilupparono le decisioni che portarono l’Italia a rovesciare nell’aprile 1915 trent’anni di politica estera triplicista. Nei protagonisti della decisione finale, Antonio Salandra e Sidney Sonnino, l’antico “ideale risorgimentale era ormai influenzato e sostanzialmente modificato da ambizioni imperialiste, d’altronde insite nelle politiche perseguite da tutte le potenze europee, da visioni di opportunità strategica, da ambizioni di egemonia nel mare Adriatico, dalle pressioni del movimento nazionalista”. Si credette, o forse si scommise, anche sul fatto che la guerra avrebbe rinsaldato governo e società, e al “sistema giolittiano” avrebbe sostituito il progetto salandrino (e sonniniano) di un liberalismo conservatore. Date tutte quelle premesse, e data una guerra rivelatasi del tutto inedita per durata e modalità di svolgimento, la realtà fu ben diversa, e pertanto il dopoguerra avrebbe infine condotto a termine lo squartamento dell’Italia liberale.
Al pari del volume di Varsori, lo studio di Giorgio Petracchi non è un instant book. Nasce piuttosto dalla convergenza tra un’esigenza esistenziale (la memoria del padre Raffaello, “un ragazzo del Novantanove”, a cui il libro è dedicato) e un’urgenza di impegno civile dell’Autore. Decisione fatale, quella della primavera di cent’anni fa. Fatale perché, come ben evidenzia Petracchi attraverso una puntuale ricostruzione che non trascura alcun dettaglio, dopo il 1915 l’Italia si infilò in una lunga stagione di lacerazione del proprio tessuto nazionale. Aggravò tensioni preesistenti e dette la stura a progetti eversivi fino ad allora rimasti solo ad uno stadio potenziale. Determinante fu proprio il modo in cui il nostro Paese entrò in guerra. Ecco la specificità e importanza di questo volume, che va ben oltre l’occasione del centenario. Un libro che si contraddistingue per la capacità di tenere insieme con un linguaggio piano ma denso di introspezione storica e psicologica tanto l’analisi della politica interna quanto di quella estera nel periodo che precedette e accompagnò la decisione del governo italiano di entrare in guerra a fianco dell’Intesa.
Attraverso sapidi ritratti dei protagonisti della politica, della diplomazia, dell’esercito, della carta stampata, dell’accademia e del mondo intellettuale di quel torno di tempo, Petracchi certifica, dati alla mano, ragioni e pulsioni che portarono il “palazzo” ad essere progressivamente trascinato dalla “piazza”, che irruppe con una virulenza che non era solo figlia della crisi di inizio secolo e che avrebbe posto alcune premesse del biennio rosso e del fascismo. Dentro l’ampia, seppur numericamente non maggioritaria e senz’altro improvvisata e posticcia, “alleanza” di forze interventiste si inserì anche chi seppe cogliere quanto la guerra potesse essere l’arma della rivoluzione. Invece del crollo del capitalismo, sarebbe stata una immane guerra esterna, facilmente rovesciabile in guerra civile, cioè interna, a destabilizzare mortalmente il sistema. Fu questo il mito della “guerra rivoluzionaria”. In tutta Europa solo Lenin aveva già compreso quel che poco dopo giunsero ad intuire anche esponenti italiani del revisionismo marxista in senso romantico-volontaristico, politici come Benito Mussolini e teorici come Sergio Panunzio (il quale nel maggio del 1914 sostenne proprio su “Utopia”, la rivista personale dell’allora leader del socialismo massimalista, ancora direttore dell’“Avanti!”, quanto una guerra inter-europea fosse “l’unica soluzione catastrofico-rivoluzionaria della società capitalistica”; e fu dunque decisivo nel passaggio mussoliniano dal neutralismo all’interventismo).
Più in generale, dalla lettura del libro di Petracchi si conferma che molti nodi creatisi nel corso del processo risorgimentale riaffiorarono alla fine della Belle Époque fino a stringere in un cappio le decisioni di una classe dirigente, quella italiana nel suo complesso, che era adusa da decenni a confondere il rango con il ruolo di grande potenza. Scopriamo così quanto i modi e i tempi dell’ingresso in quella guerra decisero della futura immagine e reputazione di una nazione che mostrò comunque, nel suo popolo, un commovente spirito di sacrificio. Non senza conseguenze fu però trascinare in guerra un’Italia che nel 1915 si mostrava rassegnata ancor più e ancor prima che neutralista, a fronte di un interventismo sicuramente minoritario nell’opinione pubblica. Creatura, quest’ultima, che però asseconda sempre chi se ne fa egemone, così che l’interpretazione egemonica appare infine come vox populi, vox Dei.
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