di Danilo Breschi

“Fratelli d’Italia / l’Italia s’è desta”. Così recitano i primi versi di quello che è stato da sempre considerato l’inno nazionale della Repubblica Italiana, ma che in realtà lo è stato, fino a ieri, solo de facto. Non tutti sanno infatti che è stato riconosciuto ufficialmente e implicitamente dalla legge 23 novembre 2012 n. 222, che ne prescrive, fra l’altro, la conoscenza nelle scuole. Compie dunque un anno in questi giorni, anche se ancora non possiamo parlare di una sua ufficializzazione nella Costituzione, così che l’inno resta provvisorio e adottato ad interim. Incredibile, ma vero. Ed è paradossale, o forse no, che se ne parli e lo si prescriva in una legge dello Stato, questo nostro inno nazionale, un canto che esorta gli italiani ad affratellarsi perché l’intera nazione, il suo spirito, sì è svegliato, è risorto. Paradossale, o forse no, perché mai come oggi l’Italia, come nazione e come Stato, sta dormendo un sonno profondo. Se vogliamo proprio essere ottimisti, sonnecchia, assopita com’è in un lungo dormiveglia che dura da molti anni, troppi. Ne conto almeno trenta, forse di più.

Per farmi capire stavolta non voglio usare troppe parole, ma solo un esempio e un invito. Prendetevi una settimana, ma non di vacanza, e trascorretela a Roma. Abitatela e viveteci ogni giorno dei sette concessi come se doveste andare tutte le mattine a lavorare e a fare le mille cose che la vita quotidiana solitamente vi impone ovunque voi abitiate abitualmente. O, se potete, chiedete un trasferimento temporaneo di sede, là dove magari la vostra azienda o l’ente presso cui siete impiegati abbia anche una filiale a Roma. Ancora meglio. Lavoro, impegni famigliari, coda alle poste, dal dentista, nel traffico, tra una commissione e l’altra, ecc. ecc. Insomma, muovetevi per la città non da turisti, ma da cittadini e lavoratori. Ebbene, capirete in men che non si dica quel che centinaia e centinaia di pagine di sociologia o politologia non riusciranno mai a chiarirvi e su cui non riusciranno mai a persuadervi. E cioè che l’Italia sta morendo di sonno. Sì, proprio così. Diciamo meglio: d’inerzia, di questo suo lento adagiarsi al flusso degli eventi e degli accidenti, e degli incidenti, con una sorta di rassegnazione, che di stoico ha talvolta, talaltra di cinico. E in questo ci confermiamo saldamente ancorati alle nostre tradizioni, agli antichi padri che ci fecero grandi e che ci hanno lasciato in eredità quel patrimonio d’arte e bellezza grazie a cui sopravviviamo. A Roma come a Firenze, a Napoli come a Venezia.

Immobilismo cronico, sprofondamento lento ma inesorabile nella palude dell’irrecuperabile. Di questo rischiamo di morire. Quel che un tempo era ancora profumo di decadenza, malinconica ma anche inorgoglita ed elegante, adesso sa sempre più di tanfo da decomposizione, appena appena imbellettata. Per chi ha potuto vivere o trascorrere una buona parte del suo tempo nella Capitale dalla metà degli anni Novanta ad oggi si offre naturale e lampante il percorso compiuto dall’intera nostra nazione in questi ultimi quindici, vent’anni. Un percorso che è un declivio, lento ma inesorabile, perché tutto è rimasto immobile, come se davvero l’eternità avesse già vinto sul tempo, sul continuo succedersi di tanti “ora” e “adesso”. Il caso, beffardo come spesso è, vuole che “moderno” derivi dal latino, un avverbio “modo”, che significa appunto “adesso”, “ora”, “in questo momento”. Il resto del mondo vive nel tempo, sul tempo, ci piaccia o meno. È contemporaneo, è simultaneo, come richiede l’epoca del digitale avanzante. Noi, in Roma e fuori Roma, entro li confini della nazione italiana, salvo eccezioni che riconfermano quanto la penisola sia frammentata e nemmeno più solo tra un Nord e un Sud o un Est e un Ovest, non vogliamo essere moderni, o non ci riusciamo, o entrambe le cose. Non so. Ai più dotti l’arduo dilemma.

A me premeva solo segnalare come il declino percorso dalla Capitale in questi ultimi decenni, città sempre più assediata dai normali, perché inevitabilmente collegati al tempo che scorre, problemi della modernità che mai si ferma, sia essenzialmente frutto di inerzia, rassegnazione, mancanza di coraggio e responsabilità civica e civile. In una parola, assenza di politica. Immobilismo pratico e culturale. Di fronte ai problemi della modernità la Città Eterna è rimasta ferma, inerte, come per inerzia si muove l’intera cittadinanza, me compreso, nell’intento di sopravvivere ad una situazione sempre più “allagata” ed “alluvionata”, anche quando non piove a dirotto e succede quanto drammaticamente successo giorni fa in Sardegna. Puntuale come ogni autunno che mette a nudo il nostro dissesto. Idrogeologico? Non solo. Sorvolo sul recente scandalo dei biglietti falsi Atac, sull’antico stato di degrado, incuria e abbandono di strade, acquedotto, bus, metro, ponti, fiume e lungofiume, di interi quartieri, e chi più ne ha più ne metta. Una città simbolo vivente di uno Stato-nazione morente.

Spiace dirlo. È con profonda amarezza che scrivo queste righe. La cornacchia è animale che non mi affascina, specie se reca malaugurio. Però l’evidenza ti inchioda la lingua, che può solo ripetere le parole che ti detta la realtà. Trascorrete una settimana da ordinario travet nella Roma di oggi, e capirete di cosa sta morendo la nostra amata nazione. Anni fa un sociologo italiano scrisse un libro dal titolo “Modernizzare stanca”. Ebbene, noi eravamo già stanchi prima di modernizzarci. E se iniziammo a farlo, abbiamo smesso ben presto. Senza per questo avere coltivato alcuna forma di tradizione o intelligente conservazione. Lì, fermi, in mezzo al guado.

 

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