di Danilo Breschi

Guardate che siamo rimasti praticamente i soli in Europa, almeno tra i maggiori Paesi industrializzati, a restare fermi e impantanati nella più nera recessione. Grecia a parte. Anche la Spagna sta riprendendosi, pur tra alti e bassi. L’Inghilterra registra dati assai incoraggianti. In altre parole, da questa crisi si può uscire. Molti ne stanno progressivamente uscendo, compresi quegli USA da cui è scaturita la crisi finanziaria del 2007-8. Basta “fare politica”, centrando il bersaglio, mordendo i problemi alla radice.

Dov’è allora il problema dei problemi per cui urge un ritorno non più rinviabile al “fare politica”? Ci instrada per la retta via il rapporto nazionale dedicato ogni anno alla semplificazione burocratico-amministrativa nel mondo delle piccole e micro imprese (M.P.I.), curato da Annalisa Giachi di Promo PA Fondazione con il sostegno delle Camere di commercio e frutto di un’indagine campionaria rivolta a circa 1.400 imprese di quel tipo. Il primo capitolo del Rapporto (“Imprese e burocrazia 2013”), tradizionalmente dedicato alla misura degli oneri amministrativi che gravano sulle piccole imprese, si apre con un esempio di tipico documento da burocrazia italica. Apprezzatene il fine burocratese, in pieno accordo con lo stile caro all’Azzeccagarbugli di manzoniana memoria: “A fini istruttori, si invita ad inviare tramite fax al n……, nel più breve tempo possibile, stralcio del “ Libro Unico del Lavoro” relativo all’ultima annualità, ovvero modelli DM 10, ovvero documentazione che comprovi la non assoggettabilità alla normativa sui disabili ed, inoltre, il numero di posizione e sede di iscrizione all’INPS e all’INAIL, con esclusione di qualsiasi certificato e/o rilasciato da Pubbliche Amministrazioni in quanto, come è noto, le recenti riforme normative precludono di richiedere certificati pubblici a soggetti privati e alle imprese”.

Questo è un fulgido esempio del modo consueto col quale un ente locale richiede ad un fornitore documentazione integrativa per poter liquidare una fattura. Al di là della richiesta sproporzionata rispetto alla prestazione fornita (si tratta appunto di una fattura di importo inferiore a 1.000 euro), la comunicazione sopra riportata è indicativa dell’eccessiva complicazione degli adempimenti e di una legislazione basata sul sospetto da parte di uno Stato che pretende di verificare tutto ex ante, non essendo poi capace di effettuare controlli seri ex post.

Il Rapporto ci informa inoltre di come, per il ciclo di programmazione comunitaria 2007-2013, “restino ancora da spendere 28 milioni di euro e vi siano ben 650.000 progetti presentati che non riescono ad andare avanti a causa delle complicazioni burocratiche che ne impediscono l’attuazione”. Ciò spiega perché le imprese, rispetto alla questione di quali siano gli interventi urgenti per la crescita, non mostrino dubbi e invochino tre priorità assolute: “la riduzione delle tasse, il contenimento del costo del lavoro e il supporto all’occupazione giovanile”.

Personalmente, ho fondati motivi per credere che una simile aspettativa coinvolga molti milioni di italiani impegnati nel mercato del lavoro, ben oltre il già ampio e cruciale mondo imprenditoriale. A ciò aggiungerei il crescente fabbisogno, sempre meno silente, sempre più consapevole, di servizi pubblici all’altezza di uno Stato che si vanta di avere la più avanzata Carta costituzionale in materia di socialità e solidarietà. Dopo il tracollo (ma non ancora completo crollo) dello Stato assistenziale stiamo ancora aspettando in Italia l’avvio di un moderno, efficiente Stato sociale. Un po’ meno tasse e servizi un po’ migliori. Questo si chiede, rifiutando la formula trita e ritrita del “paga più tasse se vuoi avere più servizi”. Il redditometro ha dimostrato inoltre che in materia fiscale, almeno in Italia, a maggiore controllo “poliziesco” non corrisponde automaticamente una minore evasione. Piaccia o meno, si deve trovare un’altra formula. Esiste. In pillole: tagli strutturali alla spesa pubblica (anzitutto, quella “sprecona” e improduttiva) e alle tasse, e ripristino della leva fiscale attraverso una politica monetaria da ricontrattare con l’Europa. Il “senza se e senza ma” non si addice alla politica, e dunque né il governo Letta è al di sopra di ogni critica e possibile sfiducia né tanto meno lo è l’Unione Europea per come sta agendo in termini di politica economica e fiscale.

Non è vero che il pubblico è condannato ad essere sempre e comunque più inefficiente del privato. Se si guarda però al caso italiano, diventa difficile poterlo affermare. Un occhio al privato, fuori dai confini nazionali. Recentissimo il caso Ryanair, compagnia aerea che da almeno un paio d’anni stava registrando perdite sia in termini economici sia in termini d’immagine (alcuni incidenti, pur lievi, avevano messo in guardia rispetto al pioniere del volo “low cost”). Si è così messa in ascolto delle richieste dei propri clienti, allo scopo di cambiare la propria intransigente politica “customer low cost”, che però aveva visto incrementare certi costi per i passeggeri. Al termine del “programma web di ascolto delle opinioni”, il vettore irlandese ha annunciato a fine ottobre il miglioramento di alcuni servizi. Piccoli e grandi accorgimenti: dalla possibilità di correggere la propria prenotazione all’introduzione di un secondo bagaglio a mano. Dai “voli silenziosi” (senza annunci e vendite) al taglio dei costi per il bagaglio da stiva. Un esempio di servizio al cliente. Il pubblico deve essere altrettanto, e ancor più, al servizio del cittadino.

Il rapporto della Promo PA Fondazione è, al pari di altri documenti analoghi che circolano da almeno cinque anni, un potenziale “programma di ascolto delle opinioni”, tipo quello effettuato da Ryanair. Ecco dunque pronta la Domanda Politica che attende la propria Offerta per riempirla di milioni e milioni di voti. Bisogna però che ci sia qualcuno capace di confezionarla in modo credibile (e per essere credibile non deve apparire come “confezionata”). Al momento non è chiaro chi sia in grado di farlo tra le forze politiche presenti dentro e fuori il Parlamento. Tra di esse di certo continua a serpeggiare l’altra Domanda Politica, già aggregata tante volte in passato e nota col nome di “partito della spesa pubblica”. Entità strisciante, sotterranea e trasversale.

Insomma, se c’è qualcuno batta un colpo e venga avanti. Sappia fin d’ora che incontrerà resistenze formidabili, d’acciaio inossidabile, al cui confronto la Linea Maginot della prima guerra mondiale parrà fendibile come burro. Tutti dicono di saperlo già. Bene. Però il già saputo non ha sinora evitato a nessuno di sbattere il muso contro il muro di gomma della monumentale burocrazia italica. Pensiamo allo stesso Decreto Semplificazioni, varato a inizio 2012 dal Governo Monti, il quale è rimasto sostanzialmente inapplicato, a causa della mancanza di buona parte di quei regolamenti attuativi attraverso i quali i ministeri danno attuazione concreta alle regole generali stabilite dall’esecutivo. La burocrazia s’è mangiata la legge anti-burocrazia. Sono i ministeri, i loro vertici dirigenziali, gli alti funzionari, i veri “distruttori delle riforme”, come li hanno efficacemente battezzati gli economisti Alesina e Giavazzi.

Per provare a rimuovere simili ostacoli non resta che partire da quel problema dei problemi che il combinato disposto berlusconismo/antiberlusconismo copre da vent’anni, e che si trova a monte della possibilità di “fare politica” e dunque di riavviare la crescita: una riforma istituzionale (non solo elettorale) che avrebbe dovuto essere il compito del governo delle “larghe intese”. Se, come tutto induce a pensare, ciò non sarà, e al massimo avremo una nuova legge elettorale (provvedimento insufficiente), il governo Letta sarà ricordato come l’ultimo atto di una stagione politica durata un ventennio che vide il fallimento di un’intera generazione di politici (ma anche industriali, sindacalisti, alti burocrati e, perché no?, cittadini inerti). Lo leggeremo sui libri di storia. Ai posteri la facile verifica.

 

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