di Alia K. Nardini
Al termine di quattro giorni di inusuali dissapori, accesi contrasti e confronti decisamente sopra le righe, Donald Trump emerge come il candidato ufficiale alla presidenza del Partito Repubblicano. Nonostante sia il figlio Donald, Jr., a dare ufficialmente (anche se in modo poco ortodosso) la notizia appena raggiunto il quorum, è lo Speaker alla camera Paul Ryan ad annunciare il conteggio finale: con 1725 delegati sui 2472 in palio, il magnate newyorchese si assicura il 69,8% dei voti alla convention. Questo, d’altronde, significa che il 30,2% dei delegati è contrario alla sua nomina, la più alta percentuale di oppositori sin dalla nota contested convention del 1976.
In realtà, sia per quanto riguarda la scelta che l’investitura del candidato, questa convention è stata più che altro una formalità; Trump aveva già tecnicamente in mano la nomination, avendo conquistato 1543 delegati durante le primarie (ne erano necessari 1237). Sembrava tuttavia necessario chiudere una volta per tutte – pubblicamente – la porta all’opposizione: per questo motivo, si è assistito in apertura dei lavori al fallimento del movimento #neverTrump, quando la Rules Committee Repubblicana ha bocciato la mozione dei delegati di alcuni Stati che chiedevano la possibilità di esprimersi secondo coscienza sulla scelta del candidato (non restando formalmente legati alle preferenze dell’elettorato nelle loro rispettive circoscrizioni). La richiesta è stata respinta, anche se con mancanza di trasparenza e poca serietà, ed i delegati hanno, volente o nolente, dovuto appoggiare per la gran parte Trump. Si è quindi assistito a veementi proteste, che hanno lasciato l’amaro in bocca a chi sperava di assistere ad una convention di riconciliazione (“non ci avranno tutti in cerchio a cantare Kumbaya”, ha affermato Kenal Unruh, delegato del Colorado e leader di uno dei movimenti antitrump).
I veri scopi di questa convention sono stati piuttosto quelli già evidenziati dalla campagna di Trump durante le primarie: sicurezza, anti-immigrazione, enfasi sull’economia e sull’occupazione, ritorno all’eccezionalismo americano. Queste tematiche sono state altresì ribadite nei titoli delle quattro giornate in programma: rendere l’America sicura, riportare il paese al lavoro, riscoprire il primato americano, e infine unire l’America. Particolarmente rilevante quest’ultimo punto, per tentare di rinsaldare il partito dopo lo strappo di queste primarie acerrimamente combattute (uno scopo in cui la convention chiaramente ha fallito); ma anche affinché il GOP affronti compatto la sfida contro Hillary Clinton a novembre.
Evidente anche il tono populista della convention, più partigiano e decisamente personalistico, che emerge dagli speakers scelti per i vari interventi: non solo influenti personalità di partito, rappresentanti del Congresso, e Governatori, come vuole la tradizione; ma vittime dell’illegalità e dell’immigrazione clandestina (per reiterare sul tema della sicurezza), membri dell’esercito e veterani (inclusi coloro che hanno vissuto l’attacco all’ambasciata statunitense a Bengasi nel 2012, scelta accorta per mettere in cattiva luce la Clinton che all’epoca era Segretario di Stato e paga ancora le controversie che circondano la vicenda); ma sopra a tutti la famiglia Trump al gran completo. Oltre alle controversie riguardanti il discorso di Melania Trump, che ha ricalcato fin troppo fedelmente alcuni passi di quello pronunciato da Michelle Obama nel 2008, spiccano i grandi assenti: la famiglia Bush (padre e figlio), Mitt Romney, John McCain, John Kasich. Ted Cruz, per suo conto, si è rifiutato di concedere il proprio appoggio a Trump e lo ha nominato solo in apertura, puntualizzando poco dopo che l’America non ha bisogno di un dittatore – commenti per i quali ha ricevuto lo scherno dalla platea.
Preparandosi dunque a sfidare Hillary Clinton a novembre, Donald Trump accetta umilmente la nomination – seppur, come ha notato argutamente Trevor Noah, quanta umiltà si potrà mai avere da un palco laminato d’oro che trasmette in sottofondo “We are the Champions”?). Il discorso accorato di Trump è stato d’altronde quello che ci si poteva aspettare: l’appello ai delusi dalla politica, a coloro che l’establishment ha dimenticato e che la crisi economica ha penalizzato. “Io sarò la vostra voce”, promette Trump, non solo agli elettori del GOP che lo hanno premiato durante le primarie, ma anche agli indipendenti e ai sostenitori di Bernie Sanders. Specie dopo la scelta poco avventurosa di Hillary Clinton, che ha nominato Tim Kaine come vicepresidente, non ci si dovrebbe stupire se molti sostenitori del Senatore del Vermont, che non approvano il ticket Democratico tradizionalista e allineato ai grandi poteri dell’establishment, decidessero di spostarsi verso il GOP e l’eclettico imprenditore newyorkese.
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