di Alessandro Campi
Se l’obiettivo della minoranza del Pd, mettendosi di traverso sulla legge elettorale e alzando la posta nella trattativa per il Colle, era quello di far saltare l’accordo del Nazareno, ciò che al momento essa ha ottenuto sembra proprio l’esatto contrario. Da ieri – dopo la spaccatura che si è registrata all’interno dell’assemblea dei senatori di quel partito – Matteo Renzi e Silvio Berlusconi sono più legati che mai, uno ormai indispensabile all’altro. Banale errore di calcolo o vocazione politica suicida di una sinistra democratica che non ha mai smesso, negli ultimi due anni, di perseguire il sogno di una rivincita sul giovanotto la cui colpa più grande è quella di averla umiliata agli occhi del suo stesso elettorato e di averle tolto da sotto il naso il potere assoluto che deteneva?
A Silvio Berlusconi, che come obiettivo persegue chiaramente non la vittoria alle urne dei moderati nel prossimo futuro ma la sua personale sopravvivenza politica, di appoggiare Renzi in Parlamento sulla legge elettorale, alle condizioni stringenti e non trattabili poste da quest’ultimo, va più che bene. Col premio di maggioranza alla lista invece che alla coalizione sa che il suo partito non vincerà mai: ma ciò che vuole è l’agibilità politica per sé e un ruolo sulla scena pubblica almeno da comprimario, dopo esserne stato il protagonista per un ventennio, e questo è il prezzo che deve pagare. In cambio potrebbe avere un Capo dello Stato che non gli sia palesemente ostile. Certamente avrà, col meccanismo dei capolista bloccati, un gruppo parlamentare composto da fedelissimi. Nella condizione di debolezza in cui si trova, è il massimo cui potesse aspirare.
Ma ancora meglio la situazione che si è creata sembra andare a Matteo Renzi. Potrà sembrare paradossale, ma a lui conviene – soprattutto in questa delicata congiuntura – un Pd diviso e lacerato piuttosto che un partito compatto e monocorde. Nella sua logica politica, il nemico interno gli serve quanto quello esterno per marcare la novità della sua proposta politica rispetto alla classe politica del passato, a partire proprio da quella della sinistra storica. Per guadagnare di più in termini di consenso, sfondando al centro secondo la sua vera ambizione, volendo fare del Pd un partito “pigliatutto” più che semplicemente a vocazione maggioritaria, qualcosa deve perdere alla sua sinistra: tanto meglio se ciò che si perde sono vecchi tic mentali, riflessi condizionati ideologici, idiosincrasie culturali e logiche identitarie che sanno tanto di richiamo della foresta. L’importante, per come ragiona Renzi, è che il saldo sia attivo alle urne.
Ma non si tratta solo di questo. Un Pd unito significherebbe doversi riconoscere in un candidato che sia espressione in primis del partito. Che è esattamente ciò che a Renzi non conviene. Un uomo al Quirinale proveniente dalla ditta, o ad essa organico, sarebbe inevitabilmente un’ipoteca – o comunque un forte condizionamento – rispetto alla sua azione politica. Questo discorso varrebbe persino se fosse eletto un renziano di stretta osservanza, che una volta al Colle (con i poteri e le attribuzione di cui si gode occupando quella posizione) finirebbe inevitabilmente per fargli ombra più che assecondarlo.
L’ostinazione con cui la sinistra del Pd si è accanita sulla questione del voto di preferenza (spacciato come la difesa di chissà quale diritto fondamentale), chiudendo ad ogni ipotesi di trattativa o accordo, finendo persino per rinnegare quella disciplina di partito che era il vanto dei comunisti di un tempo, è dunque un piacere involontario che è stato fatto a Renzi. Da un lato gli ha consentito di accreditarsi nuovamente nella sua immagine di politico deciso e determinato, poco disposto a scendere a compromessi, specie quando accompagnati dall’ombra di una minaccia o di un ricatto politico. Dall’altro gli ha offerto un argomento politico ineccepibile per chiudere la sua intesa con Berlusconi: dinnanzi a minoranze che perseguono obiettivi di corto respiro e che sembrano puntare allo sfascio, il politico responsabile è tenuto ad accordarsi anche con l’avversario politico, specie quando sono in ballo le regole del gioco e il buon funzionamento delle istituzioni.
Ma come si traduce tutto ciò nella scelta del futuro Capo dello Stato? Se il nome di quest’ultimo dovrà venire fuori, a questo punto, da un accordo tra il Pd renziano e il fronte berlusconiano (che per questa delicata partita comprende anche i centristi di Alfano) sembra inevitabile che, nello spirito proprio di un compromesso, si vada a pescare fuori dalle rispettive aree politiche una personalità che garantisca entrambi i contraenti, ma che non dispiaccia nemmeno a coloro che restano fuori dal patto.
Ma non basta la questione dell’appartenenza politica. Un accordo tra Renzi e Berlusconi sul quale si metterebbero di traverso non solo gli oppositori interni, ma anche le altre opposizioni parlamentari, a partire dai grillini, può reggere (politicamente, sul piano dei numeri e in termini d’immagine) solo se il prescelto avrà una caratura istituzionale e un curriculum politico dinnanzi ai quali alla fine, per evitare l’impasse istituzionale o votazioni ad oltranza, anche i critici più risoluti dovranno arrendersi.
Sul Quirinale non si possono fare operazioni d’immagine o colpi di teatro, come forse Renzi ancora immaginava in cuor suo qualche mese fa, secondo il canovaccio da lui seguito in altri tipi di nomine (a partire dai suoi ministri). È poi emersa sempre più chiara una variabile che sino a qualche tempo fa era parsa trascurabile: l’interesse internazionale per l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica italiana, che impedisce che ci sia affidi per quel ruolo ad una figura di secondo piano. Se si esclude inoltre la soluzione di un tecnico, che in fondo non vogliono né Renzi né Berlusconi (il primo perché legato al primato della politica, il secondo perché dei tecnici entrati in politica si ritiene una vittima), si capirà coma la rosa dei papabili sia davvero ristretta.
Da ieri, a dispetto del caos che regna all’interno del Pd e di Forza Italia e dell’agitazione che domina il Parlamento, il cammino verso l’elezione del futuro Capo dello Stato sembra essersi fatto paradossalmente più chiaro e lineare, se non addirittura obbligato.
* Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” (Roma) e “Il Mattino” (Napoli) del 21 gennaio 2015.
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