di Alessandro Campi
Cento pagine per sperare, per individuare una via d’uscita razionale dalla crisi che ci attanaglia. Sono quelle, di veloce e gradevole lettura, che ci hanno appena consegnato Giuseppe De Rita e Antonio Galdo. Dopo L’eclissi della borghesia, hanno scelto di approfondire la loro comune riflessione sulle mutazioni che hanno investito l’Italia odierna con un volumetto che attrae già dal titolo: Il popolo e gli dei. Così la Grande Crisi ha separato gli italiani (Laterza, Roma-Bari, da oggi nelle librerie).
La loro tesi (persino ottimistica) è che gli italiani, grazie alle loro storiche capacità di adattamento, siano riusciti a sopravvivere all’onda che ha rischiato di travolgerli. Non hanno fatto la fine dei greci, secondo la sgradevole immagine nella quale ci sono dovuti specchiare in questi anni alla stregua di una terribile minaccia. Ciò non toglie che abbiano dovuto sperimentare delle trasformazioni radicali nel loro modo di essere collettivo e individuale, probabilmente irreversibili, con le quali si dovrà fare i conti in vista del processo di ricostruzione che li aspetta.
La principale di queste trasformazioni è la polarità odiosa che si è creata nel corpo sociale tra i pochi e i molti, tra un’oligarchia politico-economica che si autoriproduce all’infinito, per linee interne e in forme chiuse, e un popolo che, frustrato dal senso di impotenza per quanto poco riesce a incidere sulle decisioni che lo riguardano, rischia di abbandonarsi sempre più a sentimenti quali la rabbia, il risentimento e lo spirito di rivolta, che sono la radice psicologica del populismo odierno e la brace sulla quale soffiano da sempre i demagoghi.
I cittadini – argomentano gli autori – sono stati spodestati della loro sovranità, che la globalizzazione ha finito per rendere un concetto evanescente. Chi comanda effettivamente, al giorno oggi? I politici eletti o le burocrazie forti delle loro supposte competenze tecniche? I parlamentari o i tecnici chiamati periodicamente a supplirli? E quali sono i luoghi nei quali si assumono, rispondendone agli elettori secondo la regola basica della democrazia, le decisioni che orientano la vita di una comunità politica? Gli Stati-nazione, a partire dall’Italia, sembrava avessero ceduto parte significativa del loro potere ad un’Europa politica e federale: si scopre invece che il nuovo dominus mondiale è il mercato, a comandare nella dimensione istituzionale sono attori spesso anonimi ed extrapolitici, privi di qualunque legittimità dal basso, che come titolo principale vantano solo una sconfinata ricchezza.
Ne nasce il problema di ripensare la democrazia, evitando – spiegano gli autori – di affidarsi a quel suo modello illusorio che va oggi di moda e che si affida all’orizzontalità della rete, al mito della trasparenza a tutti i costi e ad una partecipazione che a conti fatti è solo virtuale. La vera democrazia richiede la politica, come professione e dimensione progettuale. Ma la politica, per assolvere il suo ruolo direttivo, richiede partiti, strutture di rappresentanza radicate nella società, elaborazioni ideali invece che le suggestioni verbali veicolate da leader inclini alla propaganda, gruppi dirigenti selezionati attraverso la lotta politica e non nominati dall’alto secondo criteri di obbedienza e fedeltà. Esattamente tutto ciò che abbiamo perso nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica e che bisognerebbe cercare di ricostruire.
Lo scenario descritto nel libretto è in effetti cupo: l’ideale europeo che ha perso la sua forza d’attrazione, la finanza globalizzata che si mangia l’economia reale, i cittadini che non riescono più a far valere i loro diritti o a incidere sui processi decisionali, il circuito della rappresentanza che si è drammaticamente inceppato favorendo lo spappolamento sociale, il divario crescente nella distribuzione della ricchezza. Ma è anche vero che rispetto a questo scenario esistono oasi di resistenza, spazi vitali dai quali si può lentamente ripartire per avviare un nuovo ciclo di sviluppo e una nuovo sentimento dell’appartenenza collettiva. La ricetta, adattata all’oggi, è quella storica che ha sempre guidato la riflessione sociologia di De Rita e il lavoro di ricerca del suo Censis. Da un lato giovani, donne e immigrati, dall’altro famiglia, impresa e territorio sono i segmenti sociali sui quali fare leva per porre un argine agli squilibri del capitalismo finanziario, per costruire istituzioni e forme politiche in grado di riflettere la società che debbono governare in tutte le sue complesse articolazioni. Per uscire infine da quello stato di solipsismo, apatia e degrado etico cui la Grande Crisi ha condannato milioni di persone, sino a svuotarle delle loro energia. La strada è lunga, il cammino necessario.
Lascia un commento