di Andrea Beccaro
Nel contesto internazionale contemporaneo ricco di sommovimenti geopolitici e di conflitti di varia natura e intensità, un ruolo di primo piano è giocato dal terrorismo, tattica sempre più impiegata dai gruppi irregolari. Il riferimento corre subito all’ISIS, ma non va dimenticato che svariati gruppi nel Mediterraneo, e non solo, utilizzano il terrorismo come metodo principale per imporsi nel panorama geopolitico. Ci si deve così interrogare sulla natura, sulle forme e sulle motivazioni di un fenomeno tanto duraturo nella storia quanto mutevole come il terrorismo.
Il volume Psicologia del terrorismo di John Horgan (da poco pubblicato presso le edizioni Edra di Milano) si inserisce in questa bibliografia aggiornando la precedente edizione del 2005. Horgan è un autore interessante che, oltre a una carriera accademica di tutto rispetto (professore di Security Studies e di direttore del Center for Terrorism and Security Studies della University of Massachussets Lowell), collabora con l’FBI nel gruppo di ricerca sul crimine violento (unità simile con tutti i distinguo del caso a quella che ha ottenuto i successi televisivi con la serie Criminal Minds).
Un elemento che l’autore richiama più volte, e che rappresenta anche in un certo qual modo un limite dei moderni studi sul terrorismo, è che la bibliografia sul terrorismo è come uno tzunami vista la quantità enorme di libri e articoli pubblicati sull’argomento, ma ciò che lo preoccupa maggiormente è la qualità non proprio scientifica della maggior parte di queste pubblicazioni, che spesso si rifanno a poche fonti e a dati poco verificati o verificabili. Ciò porta Horgan ad affermare “che a tutt’oggi manc[a] una vera e propria scienza del comportamento terroristico” (p. XXII) perché “esiste una quantità ridotta di dati verificabili sui gruppi terroristici più rilevati” (p. XXIII). Ciò è una conseguenza del fatto che molte informazioni sono reputate sensibili per cui i servizi di intelligence che le raccolgono giustamente non le diffondono.
Il primo capitolo inquadra il fenomeno terroristico ed è utile per farsi un’idea della massa di approcci, definizioni e analisi che si possono trovare sull’argomento. Da questo sguardo generale emerge innanzitutto che il terrorismo ha una connotazione negativa di cui non bisogna mai dimenticarsi quando lo si affronta scientificamente. “Il terrorismo implica l’impiego della violenza, o la minaccia della stessa, come mezzo per ottenere un risultato politico o sociale” è la definizione generale che Hogan propone. Il passo successivo però è distinguere il terrorismo da altre attività criminali che vengono commesse per ragioni personali e in questo caso è determinante la dimensione politica, i movimenti terroristici sono così “sono gruppi (semi)clandestini relativamente piccoli, basati su ideologie sociopolitiche anticonformiste o ideologie religiose, che cercano di rovesciare o almeno destabilizzare un regime bersaglio, o di influenzarlo […] utilizzando la violenza o la minaccia della stessa” (p. 1). Dunque la natura del terrorismo è strumentale e nel contesto attuale ciò è fondamentale per capire il suo ruolo nei vari conflitti: qui, infatti, il terrorismo non è un qualcosa di a sé stante rispetto alla guerra, ma è una delle tattiche che il gruppo impegnato nella lotta può utilizzare.
Se poi pensiamo ai video a cui ISIS ci ha ormai abituato emerge un’altra caratteristica tipica del terrorismo: il terrorista non vuole che muoia molta gente (anche se il concetto di “molto” è chiaramente soggettivo), bensì vuole che molta gente stia a guardare. Questo per due ordini di motivi: per prima cosa il terrorismo distingue tra la vittima immediata dell’attacco (generalmente civili che non è detto abbiano legami con la lotta ideologica portata avanti dal gruppo terroristico) e avversario del terrorista, ovvero il governo; secondariamente, l’ipotesi terroristica si basa sull’idea che la violenza possa rendere la popolazione più consapevole e quindi ben disposta verso il programma politico del terrorismo stesso. Qui la spiegazione di Horgan è quanto mai convincente ma non prende in considerazione almeno due riflessioni a nostro avviso importanti. Innanzitutto, questo aspetto del terrorismo è rintracciabile nella sua storia, è ciò che Bruce Hoffman identifica per primo in Pisacane, ovvero la propaganda attraverso l’azione. La seconda riflessione, invece, ci riporta all’ISIS e all’impiego del terrorismo nel quadro di un conflitto più generale dove il terrorismo non è solo la tattica impiegata per propagandare la propria ideologia, colpire il governo, sovvenzionarsi, ma è anche uno strumento di controllo sulla popolazione che viene appunto terrorizzata.
Il secondo capitolo cerca di addentrarsi maggiormente nel fenomeno terroristico e sottolinea come uno dei problemi maggiori nello studio del terrorismo è che esso “è un fenomeno estremamente eterogeneo, sempre in evoluzione” (p. 30). Quindi anche se si riuscisse ad avere un’analisi perfetta e approfondita, per esempio, del terrorismo dell’IRA in Irlanda negli anni ’70, ciò non significherebbe affatto avere strumenti, anche metodologici, adatti a studiare il terrorismo islamico o quello della RAF.
Sono però i capitoli 4-5-6 a costituire il cuore del testo, poiché descrivono ciò che l’autore identifica come il ciclo IED: Involvement, Engangement, Disengagement. Involvement indica il momento in cui una persona inizia a essere coinvolta nel movimento terroristico, qui è dunque importante capire se può esistere una personalità terroristica o elementi sociali che spieghino la scelta personale. Horgan, pur citando svariati studi, arriva alla conclusione che ciò sia molto difficile se non impossibile, ma è comunque interessante vedere le varie caratteristiche che lui cita e che possono aiutare a creare una bussola mentale. Un altro problema della letteratura sul tema è che non si riesce a spiegare il perché un individuo passi poi al momento successivo mentre un altro no. Un elemento che Horgan invita a non sottovalutare per comprendere l’involvement è l’attrattiva del gruppo terrorista che diventa un’esca per coinvolgere soggetti esterni. Ciò è particolarmente rilevante oggi osservando le campagne mediatiche dell’ISIS. Non vi sono dubbi che nella fase di involvement siano coinvolte un numero notevole di persone, ma solo una parte limitata di esse compie poi il passo successivo, l’Engagement ovvero la partecipazione attiva alle attività del gruppo terrorista (attacchi, rapine, pianificazione, organizzazione o altro). Qui è importante sottolineare come il terrorismo sia un’attività organizzata e ciò presuppone un gruppo e persone con compiti diversi, queste dinamiche hanno poi ovviamente ripercussioni sul tipo di Engagement di ognuno. Horgan a questo proposito sviluppa un’interessante analisi dell’attacco terrorista: selezione del bersaglio, pianificazione dell’attacco, esecuzione e l’analisi post-evento.
Infine, il Disengagement è il momento in cui un terrorista esce dal gruppo, un fenomeno non raro ma che i gruppi terroristici tentano di evitare in ogni modo legando a sé i singoli membri attraverso indottrinamento, violenza, ideologia e simili. Il problema è che, secondo Horgan, le conoscenze scientifiche su questo momento sono scarsissime, mentre oggi con il rischio di un ritorno in patria dei foreign fighters servirebbe, forse, una maggiore analisi e attenzione.
Il testo, dunque, rappresenta un’utile analisi sul terrorismo in quanto fenomeno sociale (l’aspetto politico è invece ricordato solo sporadicamente) con pregnanti riflessioni e valide schematizzazioni che mettono ordine in una massa di studi enorme. Oggi più che mai il terrorismo è un fenomeno centrale per la comprensione del mondo e della politica internazionale oltre che della violenza organizzata internazionale e certo tale lettura può aiutare a una migliore conoscenza del fenomeno.
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