di Alessandro Campi
Una quota crescente di italiani (probabilmente la maggioranza, probabilmente per buone e fondate ragioni) non ama la politica, disprezza chi la fa professionalmente e ancor di più giudica negativamente gli apparati di partito.
Lo dimostra l’astensionismo crescente ad ogni consultazione elettorale, giunto a vette siderali in occasione delle recenti amministrative in Emilia Romagna e Calabria. Lo dimostra il numero decrescente di coloro che si iscrivono ai partiti o militano attivamente al loro interno. Lo confermano i dati, da poco resi pubblici, relativi alle donazioni volontarie alle forze politiche effettuate dai cittadini con la dichiarazione dei redditi del 2014. I contribuenti che si sono avvalsi del meccanismo del 2 per mille, introdotto per legge nel febbraio di quest’anno in sostituzione dei rimborsi elettorali a carico dello Stato, sono stati appena 16.158, per un ammontare di 400.000 euro (metà dei quali erogati a beneficio del Pd).
I fautori della democrazia a costo zero, convinti che per fare politica bastino tanto entusiasmo, molta buona volontà e una connessione a internet, potranno sempre obiettare che quelli stornati dalle tasse e girati ai partiti sono pur sempre soldi dello Stato. Anche le erogazioni volontarie rappresentano dunque una forma mascherata di finanziamento pubblico: non costano nulla a coloro che le scelgono, rappresentano invece una perdita secca per le casse dell’erario. Ma il punto, viste le somme miserrime in ballo, è evidentemente un altro: come possono sopravvivere i partiti, ancorché divenuti liquidi da potenti organizzazioni di massa che erano, se non c’è nessuno disposto a sostenerli economicamente? È un problema che riguarda solo i loro tesorieri, sempre più oberati dai debiti, o in prospettiva anche il buon funzionamento della democrazia italiana?
Gli argomenti contro qualunque forma di finanziamento pubblico alla politica (peraltro bocciato dagli italiani sin dal 1993 per via referendaria) sono notoriamente numerosi e ben fondati. Il più inattaccabile è anche il più semplice: avere dato ai partiti una montagna di soldi – 2,7 miliardi di euro nell’arco di un ventennio, a partire cioè dal 1994 – non è servito minimamente a frenare la corruzione e la loro tendenza a procurarsene sempre di più, anche ricorrendo a strumenti illeciti. Senza contare le modalità a dir poco allegre con cui questi soldi sono stati erogati nel corso degli anni: non verificando le spese effettivamente sostenute dai partiti e con verifiche contabili sui loro bilanci di fatto affidati ai rappresentanti dei partiti medesimi.
Una situazione fattasi insostenibile dal punto di vista dei cittadini, in un susseguirsi di ruberie colossali e di scandali spesso miserrimi, che ha portato alla fine il governo Letta a varare una normativa secondo la quale entro il 2017 ogni forma di finanziamento pubblico sarà abolita (con una riduzione progressiva dei rimborsi liquidati ogni anno sino a quella data). La nuova disciplina rende possibili soltanto le erogazioni volontarie: quelle effettuate da persone fisiche e imprese per un importo annuo non superiore ai centomila euro per ogni singolo partito (con relative agevolazioni fiscali) e, come abbiamo accennato, quelle operate dai contribuenti sul due per mille dell’Irpef. Non solo, ma questa nuova legge, oltre a prevedere agevolazioni fiscali per i contributori, pone una serie di giusti obblighi ai partiti in materia di regole statutarie, di registrazioni contabili, di trasparenza e pubblicità dei bilanci e di parità di genere nell’accesso alle cariche.
Ma questo cambio di rotta non sembra aver sortito alcun effetto positivo. La fiducia nei confronti della politica continua ad essere bassissima, mentre le casse dei partiti languono drammaticamente. Per alcuni non è solo una giusta punizione, ma anche una buona soluzione: la parsimonia e la rinuncia, dopo decenni di bagordi e spese pazze, sono la via più diretta perché i politici riscoprano la virtù e la moralità.
Ma si tratta, con ogni evidenza, di un’ipocrisia o illusione collettiva che si accompagna ad una pericolosa deriva ideologica: l’antipolitica, cavalcata da troppi apprendisti stregoni con l’idea di lucrare facili consensi alle urne, rischia infatti di condurre all’antidemocrazia. Una politica che non costa nulla ai cittadini è a rigore quella nella quale non esistono più competizioni elettorali, assemblee elettive e livelli di rappresentanza e nella quale la funzione di governo è affidata a una ristretta minoranza o, per risparmiare ancora, a una sola persona. Ma forse non è questo che gli italiani, per quanto arrabbiati, auspicano come loro futuro. Al tempo stesso, bisognerebbe capire che non è il denaro in sé che corrompe la politica, come hanno sempre sostenuto i pensatori reazionari, ma quello che cerca di piegarla ai propri interessi giocando sulla sua debolezza. Tutte le democrazie del mondo, non solo quella italiana, debbono vedersela col problema dei soldi necessari a garantire il loro funzionamento: dove non intervengono lo Stato con regole eque e stringenti o i cittadini con la loro liberalità si può stare sicuri che ci saranno oligarchie e gruppi di potere ben contenti di mettere mano al libretto degli assegni. La demagogia populista è, senza avvedersene, la mosca cocchiera del potere plutocratico.
I partiti, che restano pur sempre uno strumento ineludibile di partecipazione alla vita pubblica, di selezione dei gruppi dirigenti e di rappresentanza degli interessi sociali, in questo momento si stanno arrabattando come possono per fare cassa in modo lecito: organizzando cene a pagamento (viste egualmente con sospetto) o inventandosi detrazioni fiscali anche per i candidati o gli eletti alle cariche pubbliche che destinano contributi liberali ai partiti nei quali militano. Ma è chiaro che si tratta di soluzioni empiriche e poco risolutive. Il che significa, anche se il clima d’opinione sembra sconsigliarlo, che prima o poi il tema di come si finanzia (lecitamente) la politica – per evitare che i soldi di cui necessita arrivino per canali obliqui e per evitare che divenga prigioniera dei comitati d’affari che puntano a condizionarla dall’esterno – in Italia si dovrà nuovamente riproporre: col sistema attuale, che non garantisce ai partiti le risorse necessarie al loro funzionamento, si rischia infatti la bancarotta della democrazia, ovvero una corruzione ancora più capillare di quella che stiamo cercando di combattere. È un tema spinoso e impopolare, certo, ma la buona politica non è solo quella onesta, è anche quella capace di sfidare convincimenti che per il fatto di essere ben radicati non per questo sono anche giusti o razionali.
*Editoriale apparso su “Il Messaggero” (Roma) del 12 dicembre 2014.
Commento (1)
Giuseppe Piazza
Uno degli aspetti più preoccupanti dell’attuale populismo, che sta dilagando tra la società civile italiana, è l’effetto inverso che esso sta provocando rispetto ai risultati sperati dalla società. Se l’obiettivo populista è infatti quello di liberare la politica da interessi economici, il risultato che si sta concretizzando è il ritorno alla formazione di una élite politica succube dell’ élite economica della società. Si rischia un ritorno ad una politica riservata ad i potentati economici, fenomeno non nuovo alla storia politica europea, basti pensare all’Ancien Régime; non a caso, una delle riforme che ha permesso di uscire dall’Antico regime è stato il finanziamento pubblico alle organizzazioni politiche e agli organi di stampa.Tale riforma ha permesso di uscire da un sistema dove solo i ceti nobiliari o ricchi potevano partecipare alla vita pubblica. Ritengo quindi che quello che sta accadendo in Italia sia frutto di una scarsa conoscenza della storia europea e di una scarsa divulgazione scientifica umanistica di cui il nostro paese è vittima.