di Alia K. Nardini
È una vittoria a valanga, come si dice in gergo tra gli analisti politici statunitensi. Nel voto multiplo del 24 aprile, Romney ha ottenuto la maggioranza assoluta in tutti gli stati: dal Delaware, dove ha riscosso la percentuale più bassa di consensi (un pur sempre validissimo 56,5%) al Connecticut (il 67,5% delle preferenze). Anche nello stato di New York, in Pennsylvania e Rhode Island l’ex Governatore del Massachusetts ha registrato risultati analoghi (63,3%, 58% e 63,2% rispettivamente). Nonostante non abbia parlato apertamente di “investitura”, Romney si comporta ora da candidato ufficiale del partito, forte dei suoi 844 delegati. Ringrazia gli elettori per l’onore e la solenne responsabilità conferitigli ed esorta il Grand Old Party a restare unito, per serrare i ranghi e arrivare compatto al 6 novembre, combattendo affinché Barack Obama non venga riconfermato alla Casa Bianca. Certo è che, mai come in questo momento, i 1144 delegati necessari per assicurarsi la vittoria alla convention Repubblicana di Tampa in agosto appaiono davvero vicini.
D’altronde il risultato non è affatto sorprendente, soprattutto se si considera l’effetto del ritiro di Rick Santorum sull’elettorato conservatore. Oramai non ci sono realisticamente alternative alla candidatura di Romney come portabandiera del partito, ed anche i voti dei Repubblicani che avevano sostenuto l’ex Senatore della Pennsylvania stanno convergendo verso il tracciato ufficiale del Grand Old Party. Certo, non si poteva prevedere in che misura l’assenza di Santorum avrebbe influito sulla performance di Gingrich; ma dopo il recente appuntamento elettorale, si può escludere ogni possibilità di rimonta per l’ex Speaker alla Camera, che ha ottenuto risultati davvero pessimi (persino Ron Paul ha fatto meglio, conquistando anche qualche altro delegato). Ora Gingrich ha dichiarato che “rivaluterà” la propria campagna sommersa dai debiti, mentre anche il Governatore del Texas e beniamino dei Tea Parties Rick Perry (che a gennaio abbandonò la sfida per la nomination) ha trasferito il proprio consenso da Gingrich a Romney. Tutto questo può significare soltanto una cosa: anche lo stesso Gingrich è oramai in dirittura di ritiro, ed i più informati mormorano che l’endorsement per Romney arriverà tra meno di una settimana. Proseguirà invece fino alla fine Ron Paul, il quale d’altronde sta riscuotendo più consensi di quanti ottenuti nella sua campagna presidenziale del 2008. Tuttavia, questo non può certo costituire un ostacolo per il front runner.
Non è però il risultato, quanto la dichiarazione di vittoria di Romney, ad essere particolarmente interessante. Nel suo discorso tenutosi in New Hampsire (lo stato che per primo ha segnato l’inizio di una serie di vittorie per l’ex Governatore del Massachusetts), Romney ha implicitamente illustrato la strategia che adotterà in campagna elettorale contro Obama. La corsa presidenziale dei Repubblicani sarà essenzialmente negativa, nel senso che si concentrerà sulle manchevolezze del Presidente in carica, piuttosto che sulla proposta di soluzioni alternative. Si tratta di una scelta rischiosa, come nota John Podhoretz dalle pagine del New York Post: tra le righe, sembra implicare che chi ha votato per Obama nel 2008 ha commesso un errore. Proprio per questo motivo, Romney si affretta a specificare che non sono gli elettori quelli da biasimare, e la “poor performance” di Obama è da attribuire unicamente al Presidente e alla sua Amministrazione, che non ha saputo mantenere le promesse fatte agli americani. Romney intanto, in un accorato appello, tende la mano all’America messa in ginocchio dalla crisi: alle madri single costrette a cercare un secondo lavoro, alle piccole aziende sull’orlo del fallimento, ai pensionati che non possono nemmeno permettersi la benzina per andare a trovare i nipotini.
Obama contrattacca, ricordando che Romney non ha alcuna esperienza per parlare di queste realtà in difficoltà, lui che – con le varie Cadillac della moglie, e i cavalli purosangue nelle scuderie private – è nato e vissuto da sempre nell’agio. In questo senso, sembra che da qui a novembre si assisterà ad una forte personalizzazione della sfida da parte dei contendenti, impegnati a sottolineare le incapacità e le incoerenze della parte avversaria. Certo è che, per i Democratici, nelle elezioni presidenziali non si profila la possibilità di una vittoria scintillante di ottimismo e di speranze come fu quella del 2008. Ciò che Obama seguita a ricordare agli elettori è che le cose avrebbero potuto anche andare peggio. Per i cittadini, d’altronde, non sarà difficile concludere che quindi avrebbero potuto anche andare meglio: questo se solo il Presidente avesse speso meno, senza sprecare così tante forze sulla riforma sanitaria, senza spaventare Wall Street con proposte di austerity poi mai implementate fino in fondo, senza inseguire la mediazione con Repubblicani che non hanno mai avuto interesse a collaborare.
In questo senso, Romney ha centrato la questione: se trasforma il voto di novembre in un referendum sugli ultimi quattro anni di Amministrazione Obama, presentandosi come l’alternativa sensata, il manager e politico esperto che rimetterà in pari il budget e farà ripartire l’America, forse potrà farcela. Ciò nonostante, gli analisti prevedono per Obama una vittoria di misura: ciò accadrà, beninteso, se gli indipendenti decideranno che il Presidente non è poi così male, o che, in ogni caso, l’alternativa potrebbe essere peggiore. Se invece gli elettori dimenticheranno l’ostruzionismo del Congresso nei confronti dell’Amministrazione in carica, e riterranno la crisi economica unicamente opera del Presidente uscente, per Obama potrebbe prospettarsi una clamorosa sconfitta.
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