di Fabio Massimo Nicosia
Si afferma di consueto che, con la caduta del muro di Berlino, siano caduti i grandi confronti ideologici tra partiti, sicché questi non avrebbero più necessità di dotarsi di un punto di riferimento teorico, al quale collegare la propria prassi. Ciò comporterebbe il fenomeno di un pragmatismo generalizzato, per cui vi sarebbero solo “problemi” da risolvere, ma non su base ideologica o teorica.
Per contro, in tutto il mondo filosofi politici e analitici continuano a lavorare sulle teorie, salvo trovarsi ormai senza committente, per dir così.
Prendiamo il caso paradigmatico del PD. Come ha detto sarcasticamente Monti, questo partito nasce nel 1921. Orbene, nel 1921 nasce in effetti il Partito Comunista d’Italia (PCd’I), con l’obiettivo di “fare come in Russia”. Come notò Giorgio Galli nella sua “Storia del PCI”, il programma era già fuori tempo massimo, dato che, dopo il biennio rosso ‘19-‘20 si era già in fase di riflusso, e abbandonare il PSI in nome della rivoluzione era quantomeno tardivo, respirandosi già aria di restaurazione. Tant’è che Togliatti abbandonò subito la politica rivoluzionaria, iniziando il lungo percorso che lo condusse alla difesa di Badoglio e della Monarchia. E Umberto Terracini ebbe a riconoscere, in vecchiaia, che la scissione del ’21 fu un errore, che favorì l’avvento del Fascismo.
Il PCI sopravvisse fino alla nascita del PDS con questa ambiguità, fatta propria poi da Berlinguer, di un partito nato per fare la rivoluzione, e che, appena nato, si vide la rivoluzione scippata di mano. E’ questo già un esempio di partito post-ideologico, nel senso di un partito dotato sì di una ideologia (quella marxista-leninista), ma praticamente inutilizzabile. Ciò spiega la disinvoltura con la quale il PCI abbia poi potuto negare sé stesso con le successive trasformazioni in PDS, DS e PD.
Orbene, come si diceva, tuttavia, come può un partito vivere senza referente teorico?
A livello europeo il PD fa parte come è noto della famiglia dei partiti socialisti. E allora si potrebbe fare un giochino intellettuale. Prendiamo un elenco di filosofi politici di buona notorietà e vediamo a quali di essi un partito può essere ricollegato. Benchè Craxi provò a proporre per il PSI il nome dell’anarchico Jospeph Proudhon, diremmo che il filosofo politico adatto a incarnare una teoria per i socialisti europei sia John Rawls, sostenitore di un liberalismo tendenzialmente statalista e propenso alla redistribuzione delle risorse, sia pure nel rispetto del primato della libertà (ordinamento lessicale).
Veniamo ora al PPE. Nonostante il “liberismo” sgangherato di Berlusconi, dovrebbe competere all’area di destra democratica il riferimento a una teoria di diminuzione dei poteri dello Stato e dell’affidamento della maggior parte delle funzioni alla sussidiarietà, e quindi al mercato. Il primo nome che viene in mente è quello del rivale storico di Rawls, Nozick, e quindi avremmo, anche in Europa, a sinistra Rawlsiani e a destra Nozickiani, non dimenticando che su certi temi Nozick è più avanzato di Rawls, sicchè stiamo proponendo un’impalcatura che potrebbe fornire sorprese, nel senso che non è poi detto che la destra dei protestanti europei sia più conservatrice della sinistra.
Insomma, abbiamo appena abbozzato un giochino che può continuare all’infinito, affiancando a ogni forza politica il suo bravo filosofo politico di riferimento. Sapendo però che non è un “gioco”, ma un’operazione molto seria: come fa infatti, ripetiamo, un partito politico a creare politica in assenza di un’ideologia, o, se si vuole, di una teoria di riferimento, che ci dica se quanto stia facendo sia giusto e coerente?
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