di Danilo Breschi

“Contro il sistema la gioventù si scaglia / boia chi molla è il grido di battaglia”. Così cantavano nelle manifestazioni i giovani del Fuan, organizzazione universitaria del Movimento sociale italiano, dagli anni Settanta in poi. Il titolo dell’articolo è dunque una parafrasi di parte di quello slogan. Come a dire che il movimento dei Forconi che sta riversando un’ondata di proteste sull’Italia di questo dicembre 2013 è un fenomeno di destra? Addirittura estrema?

Così, sin dall’inizio, molti media, osservatori e commentatori politici hanno lasciato intendere, più o meno velatamente. La compresenza, spesso a latere, talora all’interno delle manifestazioni finora organizzate dai Forconi, di gruppi dichiaratamente di destra radicale o neofascista come Forza Nuova o Casa Pound ha contribuito ad avallare una simile immagine. Ma il discorso è un po’ più articolato e sfumato, come sempre. E non solo perché si mescolano anche gruppi di estrema sinistra. Intanto, chi sono i Forconi? Nascono nel gennaio 2012 come gruppo di agricoltori, pastori e allevatori che si proclamano stanchi del maltrattamento e del disinteresse da parte delle istituzioni. Soprattutto ritengono oramai intollerabile l’abbinamento tra la pressione fiscale più alta d’Europa e la corruzione endemica della classe politica, che quella stessa pressione fiscale ha fatto aumentare sempre più con le proprie decisioni, o mancate decisioni.

Cresciuti per successive eterogenee aggregazioni, i Forconi altro non sono che quel ceto, o agglomerato di ceti, che sta pagando la crisi prima e in misura ancor maggiore di tutti gli altri, che già soffrono non poco. Tra i Forconi, o al loro fianco, ci sono, ad esempio, coloro che appartengono al mondo delle partite IVA. Un’imposta, quella sul valore aggiunto, che è stata oggetto di un recente aumento; scelta suicida, frutto per lo più di inerzia e/o di incapacità delle allora “larghe intese” di intendersi davvero e trovare un accordo.

C’è poi, soprattutto, il mondo dei medi, piccoli e piccolissimi imprenditori che pagano le tasse più alte d’Europa. L’imposizione fiscale media su un’azienda italiana è del 65,8%, circa 20 punti sopra i livelli europei e mondiali. Secondo il rapporto “Paying Taxes 2014” di di Price Waterhouse Coopers, Banca Mondiale e IFC (International Finance Corporation), la media europea è del 41,1%. Su 189 economie analizzate a livello globale, l’Italia scende di sette posizioni, al 138° posto nella classifica mondiale del peso fiscale. Se poi guardiamo i pagamenti dovuti (15 in Italia contro i 13,1 di media europea) e le ore impiegate per effettuare gli adempimenti (269 l’anno contro 179), comprendiamo bene dove sono alcune fondamentali cause del malessere infine esploso in protesta. Una protesta che rischia di diventare inarginabile se pensiamo che quanto oggi scoppia è frutto di quanto è stato troppo a lungo perpetrato, ossia una compressione fiscale più simile al taglieggiamento che al fisiologico approvvigionamento proprio di un sistema pubblico di welfare. Si tenga poi conto che quest’ultimo è andato a decrescere in un rapporto inversamente proporzionale rispetto all’aumento del livello di tassazione generale, nazionale e locale. Più tasse, meno servizi. In altre parole, è da troppo tempo che non si riesce ad invertire la tendenza in atto, che vede una pressione fiscale crescente unirsi ad una persistente inefficienza della burocrazia, con conseguenti aumenti del costo del lavoro.

Sempre secondo il rapporto “Payng Taxes 2014”, le tasse sul lavoro sono al 43,4%, superate solo da Belgio e Francia che però compensano con più basse tasse sugli utili (in Italia al 20,3%). C’è poi il costo della burocrazia per le imprese in Italia, che è imponente, come ci conferma la classifica Doing Business 2014 della Banca Mondiale, nonostante si siano guadagnate due posizioni che ci collocano oggi al 65° posto su 189 Paesi. Davanti a noi abbiamo Ruanda (32°), Messico (53°), Panama (55°) e Botswana (56°). L’indicatore con peggiori performances è sui permessi per costruire (da 101 a 112). Nonostante le norme che si sono avute di recente sulle nuove imprese, l’Italia ha poi perso sei posizioni per quanto riguarda le procedure legate all’avvio di un’attività d’impresa (da 84 a 90). Resta da chiedersi se le novità legislative introdotte negli ultimi anni non abbiano ancora dispiegato il loro potenziale o se, invece, gli altri Paesi si muovano meglio e più velocemente.

Tasse e burocrazia. Un imprenditore italiano impiega 269 ore (all’anno) contro una media di 175, paga tasse sui profitti del 20,3% contro il 16,1%, ma soprattutto paga tasse e contributi sul lavoro quasi doppi che altrove (il 43,4% contro la media del 23,1%). Questi dati fanno ancor più male se solo si pensa che lo studio “Paying Taxes 2011” traeva le stesse identiche conclusioni di oggi: burocrazia e pressione fiscale stanno soffocando mortalmente il sistema produttivo italiano. Da questo studio pubblicato tre anni fa emergeva che, senza contare le notti, un’azienda italiana impiegava mediamente quasi 24 giorni per essere in regola con tutti i pagamenti all’erario e agli istituti di previdenza. E pensare che sono le imprese a creare lavoro, specie in tempi in cui gli Stati europei superindebitati e vincolati al rispetto di parametri di estremo rigore fiscale non possono farsi investitori o, tanto meno, ammortizzatori sociali attraverso assunzioni su larga scala nell’impiego pubblico.

Anche visivamente, il movimento dei Forconi dimostra di essere composto da orfani della rappresentanza politica e sindacale. Nessuna bandiera di partito, nessuna sigla sindacale. Solo il Tricolore. Il che ha fatto e fa pensare molti alla matrice destrorsa, se non fascistoide, dei manifestanti. D’altronde, se vogliamo stare al gioco introdotto con il titolo, il “boia chi molla” non è affatto un motto di conio fascista, né neofascista, seppure sia diventato famoso in questi ambienti. È un’espressione coniata da una patriota democratica quale Eleonora Pimentel de Fonseca durante le barricate della Repubblica Partenopea nel 1799. Fu poi utilizzata cinquant’anni dopo, all’esplodere pieno dell’epopea risorgimentale durante le Cinque Giornate di Milano nel 1848.

Quale l’obiettivo dei Forconi? Risponde Mariano Ferro, 56 anni, imprenditore agricolo, fondatore del movimento e tra coloro che hanno dato vita ai Comitati in rete per l’Agricoltura: “Siamo disposti a tutto, anche alla morte. Non ci fermano, la politica faccia la sua parte oppure vadano tutti a casa. Il popolo siciliano non consentirà più saccheggi”. Un programma un po’ generico, espressione di una rabbia che scaturisce dall’esaurimento di ogni capacità residua di sopportazione. Una protesta che non ha ancora un disegno preciso, se non quello di porre fino ad uno stato di crisi così prolungata da lasciare l’impressione sempre più forte di essere ormai permanente e immodificabile. Di qui, un lottare “fino alla morte”, eco di uno slancio risorgimentale che però non ha più l’immediato richiamo alla nazione, alla sua unità e alla sua indipendenza, come nell’inno affratellante di Goffredo Mameli.

Qui, però, non vorrei che la questione scivolasse nel solito tardo romanticismo che ha visto spesso e volentieri nel nostro Paese corposi fenomeni di contestazione arenarsi in richieste tanto confuse quanto velleitarie. Nella migliore delle ipotesi, utopie senza costrutto e finalità praticabili. Senza capacità di mordere la realtà. Di aggredirla nei punti davvero malati, per asportare il male e restituire così all’organismo una più corretta ed efficiente fisiologia.

Nell’eterogeneo movimento dei Forconi, l’ala che pare incarnare gli effetti di quel che oggi è il male dei mali dell’organismo italico, ossia burocrazia più tasse, è quella guidata da Lucio Chiavegato, artigiano e presidente dei “Liberi Imprenditori Federalisti Europei” (LIFE) in Veneto. Non che le altre “anime” del movimento non siano degne di considerazione, o non esprimano altrettanto gravi forme di disagio sociale. Ci sembra però che nella protesta del mondo imprenditoriale, di quello che non si riconosce né è riconosciuto da Confindustria ma che è il nerbo del sistema produttivo di tante regioni della nostra penisola, si possa ricavare un nuovo preciso programma concretamente politico: la rivolta fiscale. Parola d’ordine che torna a soffiare potente nel Nord-Est dopo vent’anni in cui Lega e Forza Italia parevano averla incanalata nella rappresentanza nazionale non secessionista. Deluso, quel territorio torna orfano di rappresentanza politica.

Il male dei mali: uno Stato-idrovora fiscale. Ci si chiede ossessivamente come fare per dar vita alla ripresa, alla crescita stando dentro i parametri strettissimi imposti dall’Unione Europea sul rapporto deficit/PIL. Per uno Stato indebitato come il nostro l’unico modo è far tornare a crescere il denominatore. E il PIL cresce se il sistema produttivo torna a respirare e quindi riprende a correre con forza e ritmo sostenuto. Una rappresentanza politica urge alla protesta che vaga tra richieste di meno tasse e pretese di un lavoro, purchessia, “qui e adesso”. Questo secondo tipo di rivendicazioni ripropongono il primo male che si intende scacciare, da parte di tutti, anche di coloro che non ne hanno ancora piena consapevolezza, ed è l’oppressione fiscale che impoverisce tutti, prima il lavoro privato e autonomo, ma subito dopo anche quello pubblico e dipendente.

Le rivoluzioni che hanno dato vita a sistemi costituzionali e protodemocratici, da quella inglese a quella americana per finire a quella francese, sono sempre esplose sotto forma di rivolte fiscali. La Rivoluzione per eccellenza, quella francese, è scaturita nel 1789 anche quale sbocco finale di una serie di tentativi di riforma fiscale da parte di uno Stato troppo indebitato, molto delegittimato e dunque debolissimo. Tentativi tutti falliti, peraltro, a causa delle sordità, resistenze e veti incrociati di quegli interessi corporati su cui si reggeva ormai a stento l’antico regime monarchico. A prescindere da come queste rivoluzioni siano storicamente finite, ora bene ora male, gli attuali governanti italiani dovrebbero fare molta attenzione a quanto si sta muovendo nella società italiana in questo dicembre e, probabilmente, nei mesi a venire. Forse i Forconi di oggi presto si spunteranno, ma rischiano di restare in piedi tutti i motivi sociali ed economici per i Forconi di domani, magari assai più appuntiti.

 

 

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