di Alessandro Campi
Quello pronunciato ieri di Napolitano è stato, innanzitutto, un discorso coraggioso e opportuno, nato dalla felice sintesi tra esperienza politica e passione civile, tra senso della storia e spirito istituzionale. Quelle utilizzate nell’austera sede dell’Accademia dei Lincei sono infatti state parole decisamente controcorrente rispetto a quelle che dominano – da vent’anni si potrebbe dire, ma oggi più che mai – il dibattito pubblico nazionale.
Sarebbe stato facile abbandonarsi al biasimo o alla denuncia moralistica, ovvero solleticare i cattivi umori dei cittadini chiedendo inasprimenti di pena, condanne esemplari e dimissioni di massa. Il Capo dello Stato se l’è presa invece con l’antipolitica – assimilata ad una “patologia eversiva” che rischia di mettere in crisi la democrazia rappresentativa – in giornate nelle quali il linguaggio demagogico attraverso il quale essa si esprime domina incontrastato nelle dichiarazioni degli uomini politici d’ogni colore come nelle analisi dei commentatori.
Sarà interessante, fra qualche anno, ricostruire il clima d’opinione che stiamo vivendo da quando si è scoperchiato lo scandalo cosiddetto di “mafia capitale”: lo giudicheremo come una vittoria della giustizia senza macchia e senza paura sul malaffare politico o come uno scoppio d’isteria collettiva che rischia di confondere le colpe di una minoranza criminale col degrado inarrestabile di una città e di un sistema di governo? In fondo abbiamo già vissuto di queste giornate euforiche, con la società civile che inveisce contro il Palazzo e applaude magistrati e poliziotti, senza però che il tasso di moralità sia cresciuto in Italia di un solo grammo da quando la Prima Repubblica è stata messa in liquidazione per via giudiziaria.
Napolitano non ha naturalmente fatto sconti ad una politica, centrale e periferica, talmente debole, talmente presa dalla routine burocratica e dal carrierismo personale, da lasciarsi facilmente infiltrare da soggetti malavitosi e gruppi di potere interessati unicamente agli affari e al saccheggio delle risorse pubbliche. Quanto c’è tempesta non bisogna mai prendersela col barometro o con il destino. Le ruberie all’ombra del Campidoglio (come quelle recenti all’ombra della Madonnina o di San Marco) sono dunque, in prima battuta, il risultato di una politica che ha perso la sua funzione direttiva, che ha smesso di dialogare con i cittadini, che non riesce più a selezionare i propri ranghi secondo il merito e la competenza, che ha persino rinunciato alle proprie responsabilità nei confronti di coloro i cui interessi dovrebbe rappresentare.
Ma le colpe della classe politica giustificano l’idea che la politica in sé sia qualcosa di sporco e che la corruzione rappresenti qualcosa di normale e inevitabile nella vita delle istituzioni, ragion per cui non resta che auspicare l’avvento al potere di una forza o personalità moralizzatrice – i Guardiani della Morale o il Redentore – che faccia piazza pulita d’ogni marciume e riporti l’integrità nella nostra vita civile?
Il ragionamento di Napolitano è stato una critica esattamente a quest’illusione collettiva, con la quale gli italiani convivono da troppo tempo. La politica non si rigenera distruggendone gli strumenti, le regole e i simboli, mettendola sotto la tutela di un potere moralmente superiore o affidandone le funzioni al primo che passa, magari incompetente purché onesto, ma rivitalizzandola dal basso, immettendo nel suo corpo nuove energie e nuove idee quando quelle vecchie non funzionano più. Il problema non è liquidare i partiti più di quanto non si sia già fatto, riducendoli a sigle, a feudi personali o al massimo a comitati elettorali, ma restituire loro quella funzione formativa nei confronti dei giovani e di filtro nei confronti della società senza la quale la carriera politica è diventata in Italia una semplice occasione di arricchimento personale.
L’antipolitica, ha spiegato il Capo dello Stato con intendimenti quasi pedagogici, è insomma una scorciatoia pericolosa, che si presta peraltro ad essere facilmente cavalcata dagli avventurieri nei momenti di crisi e di smarrimento. Ma l’invettiva e l’insulto non hanno mai contribuito al buon funzionamento delle istituzioni o a rendere migliore una democrazia instabile. Semmai il rischio, come la storia insegna, è che dalla violenza verbale, persino giustificata dall’esasperazione dei cittadini, si passi prima o poi a quella fisica. E che un sistema politico fragile finisca per implodere su se stesso.
Grillo ha pensato che Napolitano ce l’avesse con lui e dunque ha reagito in modo veemente, minacciando persino di denunciarlo per vilipendio. Ma la lista di coloro che in Italia, a destra come a sinistra, pensano di lucrare consensi elettorali cavalcando la retorica contro le malefatte della politica è più lunga di quanto l’ex-comico immagini. Cominciò Berlusconi nel 1994 a tuonare contro il “teatrino della politica” e da allora la denuncia populista contro il Palazzo e i suoi occupanti è stato il linguaggio preferito di ogni leader affacciatosi sulla scena politica nazionale.
E proprio ad una questione di linguaggio, a completamento di ciò che ha detto Napolitano, forse bisognerebbe ricondurre la critica all’antipolitica. Che si nutre sì del cattivo funzionamento delle assemblee rappresentative e dei cattivi comportamenti di coloro che occupano incarichi di governo, ma anche della pessima narrazione/rappresentazione che della democrazia e della politica viene offerta in Italia da almeno due decenni, in una chiave essenzialmente affaristico-criminale: non c’è allora da stupirsi se esistono oggi almeno due generazioni che non vogliono saperne di qualunque forma di impegno pubblico e che nutrono nei confronti di qualunque autorità o istituzione o realtà politica organizzata un sentimento prossimo al disprezzo.
Tutto ciò, ivi comprese le recenti vicende romane, conduce a sua volta a richiamare quel circuito perverso tra giustizia e politica sul quale si è edificata, coi pessimi risultati che vediamo, la cosiddetta Seconda Repubblica. Bisognerebbe chiedersi perché pur commissariata dalla magistratura in ogni suo atto fondamentale la politica italiana non sia riuscita, in questi vent’anni, a guarire dal morbo della corruzione e dell’affarismo. Ci salverà, come qualcuno auspica, un procuratore o un giudice al Quirinale? Forse riforma della politica e riforma della giustizia sono due facce della stessa medaglia, due soluzioni allo stesso problema. Un ragionamento fatto mille volte, talmente delicato che Napolitano ha preferito non affrontarlo. Ma chi ha senso storico o almeno un po’ di memoria politica sa bene come perché e quando ha cominciato a soffiare in Italia in vento impetuoso dell’antipolitica, che certo non può essere fermato solo con le sagge parole usate ieri dal Presidente.
* Editoriale apparso sul “Mattino” (Napoli) dell’11 dicembre 2014.
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