di Alessandro Campi
Molto si fantastica su ciò che potrebbe accadere nella politica italiana nel caso Matteo Renzi vincesse le primarie del Pd. Si è d’accordo nel dire che cambierebbe tutto, che si aprirebbero scenari inediti: nella sinistra, naturalmente, ma per riflesso anche negli altri schieramenti. Si è anche d’accordo, tuttavia, nel ritenere che alla fine, sondaggi e umori alla mano, dovrebbe spuntarla Bersani, grazie alle regole di voto che sono state decise (quanto meno restrittive rispetto al modello delle primarie aperte seguito nel passato) e alla capillare mobilitazione, a beneficio dell’attuale segretario, degli apparati di partito.
In questo caso, non succederebbe nulla d’eclatante: il vincitore perseguirebbe nella sua alleanza con Vendola e allo sconfitto non resterebbe – come lui stesso, del resto, ha lasciato chiaramente intendere – che tornarsene a Firenze.
Ma proviamo a fantasticare, tanto non costa nulla, partendo proprio dalla (probabile) sconfitta di Renzi, che però sarebbe – secondo tutte le previsioni – a dir poco onorevole: a dimostrazione del vasto consenso che la sua proposta politica, all’insegna di un radicale rinnovamento, ha raccolto nel corso dei mesi. E’ plausibile che Renzi rinunci alle sue battaglie e al suo grande seguito (soprattutto tra i giovani) per tornare a fare l’amministratore, per riprovarci magari tra cinque anni, quando però le condizioni politiche potrebbero essere radicalmente diverse dalle attuali?
In questi mesi, Renzi ha dimostrato di possedere un grande coraggio, un’indubbia ambizione e una buona dose di spregiudicatezza: tutte caratteristiche necessarie (e persino apprezzabili) in un politico che si sia dato dei grandi obiettivi – nel suo caso, addirittura, procedere ad un radicale svecchiamento della classe politica e ad un rinnovamento degli equilibri politici che hanno caratterizzato la Seconda Repubblica – e che intenda realizzarli. Si può dunque immaginare che il successo di voti che comunque otterrà (pur nella sconfitta) egli intenda metterlo a frutto. Già ora, non fra due o cinque anni, quando appunto il senso della sua sfida politica potrebbe essersi perso o alterato.
Ma in che modo – dopo aver galvanizzato non solo un pezzo consistente del popolo di sinistra, ma anche parecchi elettori provenienti da altre aree politiche, molti dei quali rimasti delusi dai rispettivi partiti – mettersi in gioco “qui ed ora”, in vista cioè delle prossime elezioni politiche?
Se nel Pd attuale ancora sopravvivesse un briciolo del vecchio realismo comunista, Bersani dovrebbe fare di tutto, una volta incassata la vittoria, per aver Renzi dalla sua parte nell’imminente scontro elettorale. Non basta imitarne le battaglie a parole o mettersi intorno qualche giovanotto di belle speranze, per dimostrare di essere a propria volta un innovatore. Bisognerebbe avere il coraggio di fare propria l’idea di sinistra – aperta, inclusiva, liberale, post-ideologica, pragmatica – che Renzi ha incarnato. E su questa base, facendo squadra con quest’ultimo, si potrebbe così pensare di allargare i consensi ben oltre i confini all’interno dei quali la sinistra storica è da sempre condannata.
Ma ciò difficilmente accadrà. Non ci sono più, infatti, i comunisti spregiudicati e pragmatici di un tempo: cinici da un lato, ma al tempo stesso capaci di cogliere i cambiamenti nella società e nel sentimento collettivo. Se ci fossero stati, avrebbero evitato le primarie e avrebbe candidato Renzi direttamente, invece di combatterlo alla stregua di un nemico interno o di un alieno, e in questo modo si sarebbero garantiti la guida del Paese per i prossimi dieci anni.
Con ogni probabilità, la sconfitta (eventuale) di Renzi verrà invece vissuta, dai vertici del Pd, come un sollievo: sarà come essersi liberati da uno scocciatore. Non gli si chiederà di restare con un ruolo da protagonista, non gli si chiederà di parlare, alla sua maniera convincente, a quegli italiani smarriti che una sinistra affidata alle facce di Bersani, Vendola e Rosy Bindi non la voterebbero nemmeno sotto tortura. Gli si chiederà, magari educatamente, di starsene tranquillo a Firenze.
Ma chiedergli questo significa condannarlo alla morte politica, dopo gli entusiasmi e le attenzioni, davvero trasversali, che ha saputo suscitare. Renzi qualcosa dovrà inventarsi – se la sinistra che lui ha cercato di cambiare proprio non vuole saperne di cambiare.
Ed è qui che servono per l’appunto coraggio, ambizione e spregiudicatezza. In un quadro politico stagnante, dove l’unica novità politica rischia di essere Grillo, chi trovasse la forza di sparigliare gli attuali equilibri e le alleanze ereditate dal passato, mettendosi a capo di una aggregazione di forze inedita; chi si dimostrasse capace, con una proposta politicamente innovativa, di riportare all’impegno politico e al voto i milioni di italiani che per disgusto e rassegnazione si sono sin qui rifugiati nell’astensionismo; chiunque insomma venisse percepito come un alfiere credibile del cambiamento, che non vuole soltanto distruggere, ma cambiare in meglio il funzionamento delle istituzioni, non farebbe solo la sua fortuna politica, ma anche il bene (politicamente parlando) dell’Italia.
Si cucina (e spesso ne vengono fuori piatti prelibati) con quel che si ha in dispensa. Potrebbe dunque appagare molti palati un’aggregazione politico-elettorale che, lasciando la sinistra alle sue granitiche e obsolete certezze ideologiche e la destra ai suoi tormenti, alla sua inconcludenza e al suo dilettantismo, tenesse insieme – sotto la guida di Renzi – i riformisti e gli innovatori dei diversi campi, i giovani e le donne, le forze vive della società e del lavoro, l’associazionismo non subalterno ai partiti, il sindacalismo non subalterno alla politica, coloro che si definiscono moderati perché lo sono per stile e abito mentale, non perché parlano a bassa voce o hanno paura della propria ombra.
C’è – fuori dai partiti tradizionali, ma anche in frange non irrilevanti di questi ultimi – un’Italia che vuole cambiare e che dalla politica, per tornare a praticarla, si aspetta un segnale di novità. Bisognerebbe avere la forza di mettere insieme queste energie sparse, dubbiose nei confronti di un Pd a trazione post-comunista, disinteressate ad un Pdl ancora berlusconizzato, per nulla sensibili ai demagogici proclami di Grillo, energie che si riconoscono piuttosto, in forma diversa, nella sinistra laico-riformista, nella destra liberal-democratica, nel moderatismo e nel solidarismo cattolico, o che magari si fanno semplicemente guidare dal senso del dovere, dal civismo e dal desiderio di guardare al futuro.
Molte di queste forze hanno intravisto in Monti una guida politica ideale, ma sarà davvero difficile far indossare i panni del candidato ad una personalità che – come ha chiarito ieri il Capo dello Stato – potrà rendersi ancora utile al Paese solo a patto di tenersi fuori dalla mischia elettorale. E dunque perché non pensare che possa essere Renzi – che dopo la sua eventuale sconfitta nelle primarie potrebbe non avere più molte ragioni per restare in un partito i cui vertici lo avversano e non ne condividono alcuna posizione – il polo d’aggregazione di quel nuovo e innovativo soggetto politico che tutti invocano, come necessario per rimettere in moto l’Italia, ma che ancora non è riuscito a prendere stabilmente corpo e a darsi una guida?
Beninteso, si tratta di una fantasia, ma hai visto mai che dovesse realizzarsi sul serio.