di Alessandro Campi

Renzi e BerlusconiIl caso non è mai casuale. Le due interviste apparse ieri a Matteo Renzi e Silvio Berlusconi (rispettivamente su ‘Repubblica’ e il ‘Corriere della Sera’) sono, proprio perché concomitanti e speculari, un evidente segnale politico. Se il M5S è il primo partito italiani nei sondaggi, a dispetto dei pasticci che combinano i suoi vertici a ogni livello, ciò non dipende solo dai cattivi umori degli italiani. Che ai grillini sembrano perdonare praticamente tutto: le giravolte in Europa del loro guru, il dilettantismo dell’amministrazione capitolina, le contraddizioni tra il dire giustizialista verso gli altri e il fare garantista verso sé stessi, l’opacità nella catena di comando del movimento, le lotte di potere interne, persino i grossolani errori di grammatica dei suoi capi.

Dipende anche dal fatto che nelle ultime settimane il centrodestra e il centrosinistra nei messaggi inviati al Paese sono apparsi ora confusi e contraddittori, ora passivi e privi di vitalità. Incapaci entrambi di prospettare una linea d’azione e un programma minimamente chiari e coerenti. Tutte cose che si pagano sul piano del consenso e della credibilità. Da qui, evidentemente, la scelta d’intervenire in prima persona di Renzi e del Cavaliere per chiarire le rispettive intenzioni e strategie.

Il problema è che da due leader desiderosi di riprendersi la scena pubblica oltre che la guida dei rispettivi campi politici, nella prospettiva delle future elezioni, ci si aspettava qualcosa di più o, se vogliamo, di meno generico.

Prendiamo l’intervista al segretario del Pd. Contiene molte oneste ammissioni di errori, relativamente alla gestione del referendum malamente perduto, e la legittima rivendicazione delle molte cose fatte dal suo governo. Ma parla davvero poco del futuro: di come il suo partito intenda neutralizzare le tensioni interne e il rischio sempre incombente di una scissione e soprattutto di come possa realizzare quella vocazione maggioritaria – che significa conquistare elettori oltre i confini storici della sinistra – che lo ha fatto nascere ai tempi di Veltroni e che sino ad oggi è rimasta sempre allo stato di desiderio.

Ha ragione Renzi quando ricorda che il fronte del No alle riforme non esprimeva alcun disegno politico, tanto che si è disarticolato il giorno dopo la chiusura delle urne. Mentre quello del Sì aveva una maggiore omogeneità dal momento che esprimeva un consenso verso le sue politiche di innovazione. Ma non è chiaro, a leggere l’intervista, come secondo Renzi quei voti possano essere fatti fruttare (e magari lievitare) sino a riconquistare la guida del Paese con l’idea di riprendere il disegno modernizzatore bruscamente interrotto dal voto del 4 dicembre. Egli ha davvero in testa un nuovo programma politico e un nuovo stile di leadership, visto che sembra aver rinnegato certi eccessi del renzismo originario: il solipsismo, la frenesia giovanilistica, l’eccesso di ottimismo, la troppa importanza assegnata alle strategie di comunicazione? Se così è, le sue nuove carte sono ancora da scoprire e in quel che ha detto a Ezio Mauro non ve n’è traccia.

Nel frattempo colpisce che mentre in certi passaggi dell’intervista Renzi esprime la sua preferenza per un quadro politico bipolare, dunque per una legge elettorale di stampo maggioritario che preveda il ballottaggio, in altri egli sembra accontentarsi dell’idea che il Pd, grazie ai suoi numeri, resterà comunque decisivo negli equilibri parlamentari e nei futuri giochi di alleanza. Il che sembra prefigurare un ritorno, per quanto ufficialmente biasimato, al sistema proporzionale: fotografia necessaria di un quadro partitico divenuto strutturalmente tripolare, ma anche in via di progressiva scomposizione all’interno del polo di centrosinistra (dove sta nascendo una nuova aggregazione di sinistra radicale) come in quello di centrodestra (con la diaspora ormai strutturale dei centristi).

E veniamo così alla sortita Berlusconi, che proprio sul punto della legge elettorale, destinato ad occupare il dibattito politico nell’immediato futuro, ha almeno il pregio di una maggiore schiettezza. Se da un lato egli continua ad auspicare l’unità programmatica – non solo in chiave elettoralistica – del centrodestra, dall’altra dà l’impressione di non credere ad una simile possibilità. I tempi sono cambiati. Il lepenista Salvini non è il Bossi federalista. E lui stesso non ha più la forza persuasiva e dunque la capacità aggregatrice di un tempo. Da qui la proposta, senza infingimenti, di una legge elettorale proporzionale che dia a Forza Italia, come a tutti gli altri partiti, la possibilità di contarsi per poi decidere, secondo convenienza, quali alleanze di governo stringere.

Negli auspici di molti, di aggregazioni, programmi valori e obiettivi i partiti dovrebbero discutere prima. Per poi decidere le regole di voto più consone alla creazione di maggioranze parlamentari per quanto possibile ampie e coese e di governi stabili. L’impressione, confermata dalle due interviste, è che in presenza di partiti ancora molto delegittimati agli occhi dell’opinione pubblica e privi di grandi visioni strategiche, soggetti a forti spinte centrifughe, che faticano a mantenere persino i loro tradizionali bacini di voti, guidati da leader magari accentratori ma politicamente deboli, si stia invece facendo largo la tentazione contraria: quella di ratificare ognuno il proprio status quo elettorale (grazie ad una legge proporzionale che a parole quasi nessuno vuole) per poi decidere con chi eventualmente aggregarsi.

Ѐ la soluzione che in questa congiuntura storica sembra convenire a tutti gli attori: ai tre grandi partiti (nessuno dei quali è abbastanza forte da poter vincere grazie ad un sistema di voto maggioritario che non sia pesantemente distorsivo della volontà popolare come era l’Italicum) e a maggiore ragione a quelli piccoli. Alla fine anche al M5S, visto che anche Grillo sembra essersi convinto del fatto che per governare deve anch’egli accettare la logica delle alleanze. E mentre tutti pensano ad una futura grande coalizione tra Renzi e Berlusconi per mettere fuori gioco i grillini, ricordiamo solo, sondaggi alla mano, che l’alleanza ipotetica dei populisti italiani in questo momento è a un passo dal 50%.

*Editoriale apparso su “Il Messaggero” del 16 gennaio 2017.

 

 

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