di Angelica Stramazzi

Dal momento in cui ha avuto inizio questo lungo periodo di recessione economica, ci è stato detto che la crisi che stiamo vivendo andrebbe vista (e vissuta) anzitutto come un periodo di nuove opportunità: un arco di tempo piuttosto prolungato in cui sperimentare percorsi e sentieri mai battuti, cercando di aprirsi all’inatteso, a ciò che si dava per scontato o che, fino a qualche anno fa, ritenevamo del tutto superfluo. Del resto, le sfide che la contemporaneità ci impone, sempre tendenti al costante aggiornamento e all’acquisizione di dati e nozioni, richiedono già una buona dose di flessibilità e dinamismo anche – e soprattutto – mentale. Ma la cultura finora predominante – anche se sarebbe più opportuno parlare di mentalità o di tendenza – ha visto privilegiare la sicurezza a discapito dell’inventiva, la solidità a tutto svantaggio dell’estro e della curiosità; in buona sostanza, siamo un popolo che ha smesso (da tempo) di sognare, di immaginare per sé e per i propri figli orizzonti sì lontani ma in cui poter anzitutto contestualizzare quel grande patrimonio di saperi e competenze di cui è ricca l’Italia.

Il periodo immediatamente successivo alla fine del secondo conflitto mondiale coincise, seppur non in maniera perfettamente sincronica, con una forte espansione industriale, generata anzitutto dalla volontà di rinascita e di ripresa economica insita in molti milioni di nostri connazionali. Che, pur nella penuria e nella povertà, pur tra le macerie di un Paese distrutto, seppero trovare il coraggio per ripartire e rimettersi in gioco, senza dimenticare che la grandezza della nuova Nazione poteva realizzarsi solo con l’unione di intenti e di obiettivi: con la condivisione e non già con la divisione. Oggi, quando tutte le nostre certezze sembrano vacillare e quei pochi barlumi di sapere ancora a nostra disposizione non paiono soddisfare più alcuna coscienza, recuperare ciò che ancora sembra trasmetterci fiducia ed ottimismo non è di certo una facile operazione, non fosse altro perché siamo quotidianamente bombardati da un flusso continuo e costante di informazioni e notizie che ci ricordano lo stato disastroso in cui versano i nostri conti pubblici, la nostra economia e le nostre finanze. A ciò si aggiungano poi i numerosi (e drammatici) suicidi di piccoli e medi imprenditori che, non sapendo più come pagare gli stipendi ai propri dipendenti, hanno scelto tragicamente di togliersi la vita, lasciando magari le proprie mogli e i propri figli attanagliati non solo dal dolore per la perdita di una persona cara ma parimenti provati dal pensiero continuo di come fronteggiare le preoccupazioni economiche.

Se in un primo momento i mezzi di informazione hanno dato ampio risalto a tali vicende, ricordando al pubblico il numero esatto di morti al giorno, in un secondo tempo anche questa attenzione mediatica è andata scemando, con il risultato che quel numero incredibile di suicidi divenisse in un certo qual modo conseguenza “normale” – e forse anche prevedibile – di una crisi assai prolungata. Si è quindi potuto percepire l’inconsistenza di certi messaggi, tutti indirizzati ad un pietismo istantaneo ma privo di contenuti e sostanza, unitamente alla drammatizzazione voluta e determinata dal fatto che la spettacolarizzazione di una notizia – e dunque di un evento – è ormai all’ordine del giorno.

Di fronte ad un simile scenario, viene da chiedersi se siano ancora da demonizzare – e se sì in che termini – quelle tante figure di imprenditori italiani che, strangolati da una pressione fiscale che tocca percentuali ormai elevatissime e dalle lentezze burocratiche, scelgono in piena libertà di delocalizzare la loro produzione, trasferendo la propria attività (o parte di essa) in quelle zone del globo in cui il costo della manodopera è piuttosto basso e il lavoratore si mostra facilmente reperibile (e remunerabile) viste le scarsissime tutele sindacali di cui gode. Il giornalista Federico Rampini, in un suo libro del 2006 intitolato “L’impero di Cindia”, ha esaminato con dettaglio e precisione i diversi casi di delocalizzazione produttiva da parte di molte (e note) imprese italiane, rilevando come il colosso cinese – cui Rampini affiancava, già nel 2006, una agguerrita India – fosse un grande serbatoio di manodopera a basso costo cui attingere per far decollare nuovamente produzioni altrimenti ferme in Italia. Ricordando il celebre caso della Natuzzi Spa, industria leader nella fabbricazione di divani, il giornalista di Repubblica si interrogava sulle varie ragioni di così tanti (e diversificati) spostamenti. «Pasquale Natuzzi – scriveva Rampini in un capitolo del suo libro dedicato giustappunto alla grande fuga del “made in Italy” – punta il dito su due cause: l’euro forte e la concorrenza dei paesi emergenti. Una tenaglia spietata. Da un lato, l’euro forte accentua i costi di produzione già elevati in Italia (costo del lavoro, cuneo fiscale e contributivo, costo dell’energia, dei servizi, delle infrastrutture). Dall’altro i paesi emergenti producono con salari che sono una frazione dei nostri, e inoltre fanno progressi spettacolari anche sul fronte della produttività, dell’efficienza, della qualità e affidabilità dei prodotti». Ecco quindi svelato l’arcano: anche la Natuzzi Spa, insieme ad altre imprese italiane, ha trasferito il suo cuore produttivo in Oriente perché è qui che si gioca il futuro, grazie a particolari condizioni che rendono la Cina (ma non solo) attraente dal punto di vista della produzione e della efficienza economica.

Stando così le cose – e avendo appurato che le classi dirigenti che si sono susseguite in questi anni poco hanno fatto per far sì che le nostre imprese restassero a produrre in Italia, senza sentirsi costrette anch’esse, come molti giovani, a fuggire all’estero – dovrebbe venire meno l’efficacia (e la durezza) di quel motto che ricordava (e tuttora ricorda) che “delocalizzare è tradire”, quasi a voler sottolineare il fatto che l’abbandono del suolo italiano da parte di interi distretti industriali equivale ad un tradimento tout court. E, così come accade nel lavoro e nella vita, quando si tradisce poco contano le reali motivazioni che inducono ad un simile gesto: ciò che resta sono le ferite, i lasciti di un’azione che, con un pizzico di impegno e sacrificio, poteva essere evitata. Ecco perché andrebbe arrestato con tutta fretta l’esodo di piccoli e medi imprenditori verso più accoglienti (soprattutto dal punto di vista fiscale) lidi: affinché non si confonda più il tradimento con la necessità, la costrizione con la disperazione, la voglia di sopravvivere con quella di vedersi scomparire da un giorno all’altro.

 

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