di Spartaco Pupo*
Norberto Bobbio era convinto che tra politica e cultura non vi fosse né separazione netta di compiti né corrispondenza reciproca ma semplicemente un continuo stato di attrazione e repulsione. Come dargli torto considerata la situazione attuale della politica italiana?
Il rapporto tra politica e intellettuali nell’Italia repubblicana ha vissuto fasi altalenanti ma a prevalere, ultimamente, è stata senza dubbio la repulsione. La figura gramsciana dell’intellettuale organico, che trovava sbocco talvolta anche nelle liste del vecchio Pci, spesso frequentate da professori universitari e uomini di cultura chiamati a rappresentarlo nelle istituzioni, è ormai scomparsa dalle consuetudini elettoralistiche e tattiche della sinistra. A destra, l’appello di Giovanni Gentile alla “inscindibile unità dell’uomo sulla cattedra o a tavolino e nell’assemblea o sul campo di battaglia”, contro l’idea dell’intellettuale italiano vecchio stile, “disimpegnato” e “alla finestra”, è pressoché caduto nel vuoto. Se l’“egemonia” marxista ha finito per sgretolarsi sotto il peso del materialismo pratico e dell’individualismo liberale, il “gramscismo di destra” alla de Benoist non ha mai attecchito a causa del disinteresse degli ambienti politici verso la “battaglia delle idee”, molto spesso considerata secondaria, se non proprio inutile, come testimoniano le continue scomuniche e defezioni.
Occorre tuttavia riconoscere che, nella storia del centrodestra italiano, uno dei periodi più floridi per quanto riguarda l’“impegno” degli intellettuali nell’attività politica pratica è stato quello che ha contraddistinto la prima fase del berlusconismo.
Al momento della sua “discesa in campo”, nel 1994, Berlusconi fu molto abile a colmare il vuoto di idee lasciato dalla Prima Repubblica, ossia dal vecchio pentapartito, impresentabile sotto il profilo sia etico che culturale. Lo fece attraverso la proposta di dare vita a un soggetto politico liberale di massa, novità assoluta nel panorama partitico italiano, che il Cavaliere stesso affidò all’elaborazione teorica e programmatica di alcuni tra i più importanti esponenti del liberalismo italiano, fino a quel momento ai margini del dibattito pubblico, ai quali offrì la possibilità di mettersi in gioco e dare forma concreta alle loro idee. Personalità del mondo accademico, come i Martino, gli Urbani, i Marzano, diedero corpo, forse inconsapevolmente, a una riedizione dell’immagine gentiliana dell’intellettuale unitario o, se si vuole, della formula mazziniana “pensiero-azione”, poiché rivestirono ruoli importanti sia all’interno del governo che nel neonato partito di Forza Italia, rendendo ideologicamente presentabile un soggetto politico altrimenti bollato come mero “partito azienda”.
Filosofi e intellettuali come Mathieu, Colletti, Mennitti, Pera, Adornato, Guzzanti, Baget Bozzo, seppure da prospettive culturali differenti e a volte anche in contrasto tra loro, contribuirono, con l’avallo del leader, alla elaborazione di una base ideale che fornì a Forza Italia la dignità di centro di riferimento per laboratori culturali e movimenti vari che ne accompagnarono il percorso politico in certi casi con discreti risultati sul piano dell’organizzazione e dell’ideazione culturale.
Con il passare del tempo, questa spinta positiva del primo berlusconismo ha perso forza e ragion d’essere, per cause in gran parte riconducibili a un errore strategico del leader. Berlusconi ha contribuito in prima persona alla frantumazione del progetto da lui stesso messo in piedi, lasciando che lo spazio della proposta e dell’immaginazione politica venisse via via occupato da improvvisazione, superficialità, cialtroneria, ciarpame. La nascita del Pdl, con la promessa del partito a vocazione maggioritaria e pluralista, anziché frenare questo perverso processo di dissoluzione culturale e politica, ha finito per acuirlo irreversibilmente.
Il declino della credibilità di Berlusconi agli occhi degli italiani e del mondo intero ha, dunque, ragioni ben più profonde di quelle che appaiono a una lettura superficiale degli ultimi eventi. E metterle in risalto non è una superflua operazione esegetica ma un’occasione per tentare di decifrare la complessità dello scenario politico attuale e forse anche di quello futuro.
Il declino di Berlusconi non è semplicisticamente legato alla crisi economica globale, al “tradimento” più o meno legittimo di qualche deputato o alla stanchezza fisiologica del leader. La crisi del berlusconismo è iniziata nel momento in cui ha smesso di apparire come una “cosa seria”, cioè quando ha cominciato a disfarsi delle idee e della cultura dell’immaginario che fino a un certo punto lo avevano sorretto per sostituirle con gli interessi materiali e personali.
E ciò è la prova lampante del fatto che quando la politica diventa completamente priva di un minimo di tensione culturale, passione ideale e orizzonte immaginativo si trasforma in ordinaria amministrazione e, inevitabilmente, in affarismo, quando non si auto annulla del tutto. Non a caso la fase discendente di Berlusconi è iniziata nel momento in cui egli stesso ha deciso di poter fare a meno del “pensatoio” e, nella smania di accentrare e dominare su tutto e tutti, ha sostituito l’anima autorevole e seriosa del berlusconismo con la praticità delle donnine e degli “yes men” e la mediocrità dei piccoli affaristi di provincia, interessati più al “particulare” e al privato che al generale e al “publicum”, più al “fare” che al “pensare”.
L’avere trasformato i luoghi dell’elaborazione e della ponderazione politica con quelli della perversione e della confusione è costato caro non solo a Berlusconi e al berlusconismo ma all’intero Paese, che ora, attraverso le prerogative che la Costituzione assegna al Capo dello Stato, si prende la rivincita. Ironia della sorte, è giunta l’ora della nemesi degli intellettuali. La cultura sostituisce per intero la politica al governo non di una fazione ma della nazione, realizzando quella che fu la profezia di Platone: ci sarà un buon governo solo quando i filosofi diventeranno re. È vero che il governo dei migliori al posto del governo del popolo si è reso necessario per l’incapacità di una classe politica di assumere decisioni nel momento dell’emergenza, ma è altrettanto vero che tale incapacità non è solo il frutto del caso o della negatività delle circostanze esterne, ma è anche il prodotto del graduale esautoramento delle energie intellettuali ad opera di chi ha sin qui usufruito di un potere assoluto nella selezione della classe politica e l’ha esercitato nel peggiore dei modi.
*Docente di Storia delle dottrine politiche all’Università della Calabria, Senior Fellow del Dipartimento Storia e Società dell’Istituto di Politica