di Alessandro Campi

imagesCABCFQM3Si dice che i fatti storici salienti si realizzino la prima volta in forma di tragedia, la seconda di farsa. Ma si dice anche, guardando ai comportamenti umani, che perseverare nello stesso errore abbia un che di diabolico. Chiediamoci dunque se dentro Forza Italia stia per ripetersi in forma di commedia maligna lo sbaglio che fu commesso con l’espulsione di Fini dai ranghi del Popolo della libertà (luglio 2010): anche Raffaele Fitto verrà messo alla porta per incompatibilità politica e caratteriale con Berlusconi, in quanto sospetto di tradimento e intelligenza con l’avversario?

Rispondendo provocatoriamente “Mi cacci perché ho ragione?” al Cavaliere che ieri lo ha invitato a “decidere entro 15 giorni se rimanere in Forza Italia e lavorare per il partito o se andarsene via”, Fitto ha – certo consapevolmente, ma in maniera improvvida – evocato un pericoloso fantasma. E messo in moto un meccanismo che potrebbe risolversi nel modo che già tutti immaginano: una nuova scissione in quello che fu il gran partito dei moderati italiani e che da quattro anni a questa parte, a partire proprio dalla cacciata dell’allora Presidente della Camera, non ha fatto altro che perdere elettori, militanti, dirigenti, parlamentari e alleati. Si vuole continuare lungo questa strada in discesa?

Se l’esperienza del passato non insegna nulla, dovrebbe almeno sopperire il buon senso. A chi conviene in questo momento forzare i toni dello scontro sino all’irreparabile rottura? Berlusconi, dopo aver disdetto il Patto del Nazareno, ha bisogno di dimostrare – al mondo ma in primis al suo stesso partito – non solo che lui è ancora il capo, ma che la strategia vincente è sempre quella che lui dettata. Senza timore di smentite, distinguo e contestazioni. In questa prospettiva, si è convinto di non potersi permettersi una dissidenza come quella di Fitto, il cui torto maggiore sembrerebbe quello di aver detto ieri quello che il Cavaliere è stato costretto a riconoscere oggi. E cioè che l’accordo con Renzi, su cui tanto aveva investito, era svantaggioso per Forza Italia.

Da qui l’ultimatum lanciato ieri, che forse nelle sue intenzioni dovrebbe anche valere come monito verso tutti coloro che nel partito vanno esprimendo da mesi malesseri e critiche d’ogni tipo. Ma dove sta, in questo momento, la convenienza del Cavaliere a marginalizzare Fitto sino a ventilarne l’espulsione? Colpendone uno, che poi uno non è, pensa di educarne cento? Mostrando i muscoli crede di riaccreditarsi agli occhi dei suoi elettori delusi? All’epoca per far passare Fini nei panni del traditore ci volle una furibonda campagna di stampa: si volle dimostrare (a parte la vicenda della casa di Montecarlo, teso a screditarlo personalmente) che faceva la corte alla sinistra e che era in fondo un estraneo alla storia di Forza Italia. Argomenti polemici che con Fitto, rampollo del berlusconismo di tendenza democristiana da quasi un ventennio, che certo non sembra intendersela con i magistrati o con i comunisti come invece si diceva di Fini, non avrebbero alcun valore. Senza considerare che il Cavaliere che cacciava il cofondatore del Pdl era ancora forte e gagliardo, quello odierno è acciaccato e politicamente all’angolo. Il suo diktat stavolta non verrebbe percepito come un atto di chiarezza politica, ma come la vendetta immotivata di un leader confuso.

Ma nemmeno Fitto, a ben vedere, ha interesse alla rottura. Le scissioni, specie col sistema di voto che si sta disegnando, portano all’irrilevanza: magari ci si salva elettoralmente, ma poi non si conta nulla negli equilibri parlamentari. E comunque lo spazio della dissidenza partitica berlusconiana è già presidiato dall’Udc. Un altro partitino di centrodestra non avrebbe mercato, così come aggregarsi ad Alfano significherebbe condannarsi ad un ruolo gregario. Per quanto gli sarà possibile, ammettendo che è oggettivamente difficile, la sua battaglia Fitto dovrebbe dunque continuare a condurla entro Forza Italia. Sapendo che non può però essere, al momento, una battaglia per la leadership, ma per conseguire semmai un obiettivo comunque grandioso per quel mondo: il passaggio, che prima o poi dovrà avvenire anche in Forza Italia, dalla dimensione personalistica a quella politica, dai legami basati sulla fedeltà alla strategia che si fonda su un programma d’azione condiviso, dalla cooptazione dall’alto dei parlamentari alla competizione interna a partire dal territorio per decidere ci mandare a Montecitorio. Deve contare chi è leale al capo, come è sempre stato nel passato, o chi porta i voti? Chi dice sempre sì o chi cerca di esporre le proprie buone ragioni politiche? Per come si è ridotta Forza Italia non è forse il caso di cambiare rotta?

L’impressione, vedendo a come le cose rischiano di precipitare in Forza Italia, sino a spianare la strada all’egemonia leghista sul centrodestra, è che in quel partito dovrebbero darsi tutti una calmata, se l’obiettivo condiviso è quello di farlo ripartire e di frenarne la frammentazione interna e la caduta elettorale. Quando si litiga, si sbaglia sempre in due. Si è detto del Cavaliere, il litigante maggiore, che decide troppo facilmente sulla base dell’orgoglio ferito e secondo un metro da vecchio capo d’azienda, che nulla mai concede alle buone ragioni dei subordinati. Ma anche Fitto dovrebbe smetterla, come è accaduto nuovamente ieri, di disertare i vertici e le riunioni di partito. Ha ragione nel lamentare che Forza Italia è un partito nel quale le regole di una corretta discussione non sono mai state codificate e nel quale si inclina un po’ troppo all’unanimismo. Ma distaccarsi fisicamente dal partito al quale si appartiene non è forse un modo simbolico per dirgli addio anzitempo? Fitto teme di essere cacciato o si sta candidando, per ragioni che non si comprendono, al martirio? Dovrebbe poi – quando espone le sue critiche – evitare di parlare solo al gruppo dirigente del partito (questa è almeno l’impressione che trasmette). È agli elettori di Forza Italia, quelli rimasti fedeli e quelli delusi, che dovrebbe invece rivolgersi direttamente per dare maggiore credito e legittimità alla sua battaglia e per non far credere che la sua sia solo una guerra di poltrone dettata dall’ambizione.

Se davvero Berlusconi e Fitto vogliono entrambi il bene della loro parte politica servirebbe dunque un immediato abbassamento dei toni. I precedenti tuttavia non confortano. Ci si appellò al buonsenso dei litiganti e alla reciproca convenienza politica anche nella torrida estate del 2010. Ma tutti ricordano come è andata a finire.

* Articolo apparso sul quotidiano “Il Mattino” (Napoli) del 12 febbraio 2015.

 

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