di Leonardo Varasano
Il ghigno sardonico e supponente impresso sul volto di Sarkozy al momento della domanda sull’affidabilità dell’Italia, in occasione dell’ormai nota conferenza stampa congiunta con Angela Merkel, è stato un inopportuno e volgare concentrato di sussiego e arroganza. Quella smorfia anti-italiana ha però prodotto almeno un effetto positivo, aggregando – anche se solo per poche ore – gran parte del panorama politico ed economico nazionale in un’unica, sdegnata reazione. La risatina sbeffeggiante del presidente francese non è piaciuta proprio a nessuno: non l’hanno gradita, com’è ovvio, né il presidente del Consiglio, né il ministro Frattini, né i partiti di maggioranza; ma non l’hanno accettata neppure Casini, D’Alema e Prodi. Perfino Emma Marcegaglia e Antonio Di Pietro – quest’ultimo senza rinunciare alla consueta chiosa antiberlusconiana – hanno espresso il loro disappunto per l’inutile sarcasmo di Sarkozy. Leonardo Tricarico, ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, è arrivato addirittura a restituire la prestigiosa “legione d’onore” per protestare contro la risata “da bullo” – come l’ha definita Giuliano Ferrara – del capo di stato transalpino.
Ma qual è la causa di tanta ironia anti-italiana, priva di parole eppure così eloquente? Cosa ha spinto il presidente francese ad una prova tanto imbarazzante? La ragione, ci si è affrettati a spiegare, va ricercata nella vicenda Bini Smaghi, nella prolungata attesa delle dimissioni del rappresentante dell’Italia nel consiglio della Bce dopo la nomina di Draghi alla presidenza della banca stessa. In subordine, si è sostenuto, il sorriso beffardo di Sarkozy discenderebbe dalle divergenze sorte in occasione dell’intervento militare in Libia, dalle scorie del caso-Battisti o dall’ostilità della influente première dame Carla Bruni verso la terra che le ha dato i natali. Si tratta, in effetti, di motivi contingenti che hanno un fondamento.
Forse però c’è dell’altro. Forse ci sono anche cause storicamente e culturalmente più profonde. Forse, dietro una presunta cuginanza tra francesi e italiani – ammesso che esista qualcosa di simile ad un carattere nazionale, tale da permettere generalizzazioni -, si celano in realtà antipatia, invidia e rivalità. Basti rilevare alcuni esempi. Secondo un comune stereotipo caro ai francesi, noi italiani saremmo un popolo di furbi, di arlecchini casinisti e un po’ banditi, geniali ma inadatti alle questioni serie. Simili luoghi comuni perdurano da secoli. Tant’è vero che già Machiavelli – quando ancora non esisteva lo Stato italiano, quando ancora la penisola era solo “un’espressione geografica”, benché percorsa da un forte sentimento di italianità – sentì l’esigenza, in un significativo passo del suo “Principe” (1513), di replicare così, con risentimento e passione, al cardinale di Roano che accusava gli italiani di essere incapaci alla guerra: “(…) io li risposi – scrive il fiorentino – che e Franzesi non si intendevano dello stato”.
Al di là delle ricorrenti schermaglie culturali – l’Alfieri si lamentò dell’“Italia infranciosata” -, l’ostilità francese arrivò più volte all’odio sciovinista. Accadde nel 1881, quando a Marsiglia, dopo una manifestazione al grido “Abbasso l’Italia!”, si contarono 3 italiani uccisi. Accadde nel 1893, quando ad Aigues-Mortes, nelle saline delle Camargue, si scatenò una caccia agli italiani – spesso preferiti agli indolenti operai francesi – che si concluse con almeno 9 morti.
Gli esempi della reciproca antipatia tra francesi e italiani, con atti di avversione da una parte e dall’altra, potrebbero continuare. Polemiche sorpassate a parte, a chi, come Sarkozy, irride il nostro Paese vale la pena ricordare la conclusione del “Principe”: in Italia, scrive Machiavelli, “è virtù grande nelle membra, quando la non mancassi ne’ capi. Specchiatevi ne’ duelli e ne’ congressi di pochi, quanto gli Italiani sieno superiori con le forze, con la destrezza, con lo ingegno”. Se è ancora così, almeno un pò, i nostri denigratori hanno poco da sghignazzare.