di Alessandro Campi
Fu un episodio occasionale – un commerciale tunisino si diede fuoco per denunciare i maltrattamenti della polizia – a scatenare nel dicembre 2010 la protesta da cui, per contagio e imitazione, nacque la “primavera araba”: un movimento di rivolta transnazionale, sostenuto dalla capacità di mobilitazione dei social media e dalla rete militante delle moschee, che in pochi mesi costrinse alle dimissioni i governi illiberali e corrotti di parecchi Stati.
Dopo quattro settimane di proteste e violenze in Francia,
di Alessandro Campi

Fu un episodio occasionale – un commerciale tunisino si diede fuoco per denunciare i maltrattamenti della polizia – a scatenare nel dicembre 2010 la protesta da cui, per contagio e imitazione, nacque la “primavera araba”: un movimento di rivolta transnazionale, sostenuto dalla capacità di mobilitazione dei social media e dalla rete militante delle moschee, che in pochi mesi costrinse alle dimissioni i governi illiberali e corrotti di parecchi Stati.

Dopo quattro settimane di proteste e violenze in Francia, innescate anche in questo caso da un fatto marginale quale l’annuncio di un rincaro delle accise sui carburanti, c’è chi parla della possibilità di una “primavera europea”, di una rivolta su scala continentale. Se a sud del Mediterraneo al centro della lotta erano la libertà individuale, la richiesta di pluralismo politico e un minimo di equità economica dinnanzi a intollerabili divari di ricchezza, i problemi che in Europa stanno causando un crescente malessere sociale, pronto ad esplodere anche fuori dalle urne, sono altri ma anch’essi riconducibili alle dinamiche perverse della globalizzazione: la contrazione del reddito e della capacità di spesa delle famiglie; l’eccessiva esosità fiscale degli Stati; la divaricazione sempre più accentuata – di mentalità e stile di vita – tra le minoranze al potere e i ceti popolari; lo svuotamento della democrazia politica e la crisi dei suoi attori tradizionali (il Parlamento, i partiti di  massa, le organizzazioni di mediazione sociale); uno stato di ansia collettiva causato dalla paura del futuro.

In Francia tutto ciò si è tradotto nel fenomeno di difficile decifrazione dei “gilets jaunes”, che comincia ad avere sostenitori politico-intellettuali anche in altri Paesi. Ma è presto per dire se siamo davvero alla vigilia di uno scoppio generalizzato, secondo un movimento come quello della Contestazione studentesca mezzo secolo fa. In quanto sta accadendo andrebbero infatti considerate alcune specificità della storia politica d’oltralpe, come tali non generalizzabili. In particolare quel senso della teatralità rivoluzionaria che più volte ha spinto i francesi, negli ultimi due secoli, a mettere in scena la replica in forma di psicodramma della Rivoluzione per eccellenza. Lo storico Michael Winock l’ha definito la “febbre francese”: agitazioni periodiche, destinate al fallimento, durante le quali la fanno da protagonisti i commedianti di un assalto alla Bastiglia puramente immaginario.

Si dice che la novità odierna, non limitabile ad un solo Paese, sia rappresentata dall’insorgenza del popolo, come soggetto politico unitario che in realtà non esiste, contro le tecnocrazie liberali che operano ormai assecondando i piani della finanza internazionale e senza alcun riguardo per gli interessi materiali dei cittadini. Se in Francia la scintilla ha prodotto il primo fuoco è perché il Presidente Macron rappresenterebbe il simbolo principale di un sistema di potere ancora formalmente legittimato dal voto, ma che nella sostanza ha rinunciato al suo radicamento nazionale e popolare, arroccato in sé stesso, spesso arrogante e che non sa più nemmeno riconoscere, figuriamoci gestire, i conflitti sociali. In realtà quello che stanno chiedendo i francesi in modo rabbioso è lo stesso che pretendono i cittadini degli altri Paesi europei indipendentemente ormai dal loro colore politico: lavoro, protezione sociale, minore pressione fiscale, salari accettabili, lotta ai privilegi, maggiore partecipazione alle decisioni politiche.

L’esistenza di richieste diffuse e condivise, al punto da rappresentare la base ideologica della gran parte delle forze cosiddette populiste, ha spinto Beppe Grillo ha sostenere con compiacimento che i “gilet gialli” sono la variante francese e un’imitazione tardiva del M5S, sino a far intendere che il limite di quest’ultimo, dopo aver per primo anticipato certe battaglie, è di aver imboccato – con la partecipazione al governo in condominio forzato con la Lega – una strada eccessivamente legalitaria e istituzionale che ne ha depotenziato la forza d’urto e la connotazione anti-sistema. Richiami alla purezza delle origini e alle parole d’ordine intransigenti intorno alle quali il movimento s’è costruito che fanno pensare, in vista del voto europeo e tenendo conto di quanto sta accadendo in Francia, che tra i grillini potrebbe crescere la tentazione di preferire la Piazza al Palazzo con l’obiettivo di rivitalizzare la propria matrice radicale e protestataria.

Al contrario ci si chiede se le agitazioni francesi, in attesa di un contagio su larga scala che al momento non si vede, possano trovare una qualche canalizzazione politico-parlamentare, ovvero se continueranno nella forma tumultuaria di queste settimane. La novità radicale di quanto sta accadendo è in effetti nel carattere molecolare, spontaneista, privo di una precisa coloritura ideologica delle proteste, che pur essendo di massa danno l’impressione di essere una somma di individualismi e corporativismi difficili da accorpare politicamente.

Per riprendere il paragone stabilito da Grillo, il M5S, pur con tutto il suo post-modernismo tecnologico, è una manifestazione politica per certi versi tardo-novecentesca, visto il ruolo decisivo che proprio il carisma del comico genovese ha giocato nella nascita ed aggregazione del movimento. Le piazze francesi, in questo figlie dell’anarchismo della Rete, non hanno capi riconosciuti, hanno un coordinamento tattico ma non un’organizzazione che possa garantirne la sopravvivenza nel tempo, ma soprattutto non hanno un programma politico spendibile, solo un elenco di istanze non negoziabili stimolate da un disagio reale ma che difficilmente possono essere accettate integralmente da un qualunque governo.

Se il M5S (ma vale anche per altri populismi) rappresenta il tentativo, a tratti confuso e velleitario, di dare una veste istituzionale nuova alla democrazia parlamentare, per accrescere la partecipazione popolare ai processi decisionali, la rivolta francese sembra invece riflettere un’idea di democrazia integralmente disarticolata, basata sul rifiuto di qualunque canale di mediazione o rappresentanza e sullo scontro frontale tra legittimità inconciliabili in quanto egualmente assolute (quella sostanziale del popolo, quella legale della nazione definita dal processo elettorale). Una democrazia alla lettera ingovernabile e dinnanzi alla quale si profilano due sbocchi egualmente rischiosi: il caos socio-istituzionale preludio di qualunque avventurismo o il rafforzamento, alla fine per invocazione di quello stesso popolo che oggi protesta, del potere monocratico che si vorrebbe abbattere. Motivo di più, per i grillini oggi tentati dal ritorno allo spirito di lotta per timore di perdere consensi, per prendere sul serio le responsabilità di governo che gli elettori hanno loro affidato, anche a costo di qualche compromesso o cedimento pragmatico. Lo spettacolo di un popolo in rivolta può anche essere affascinante, specie in una società che si nutre di immagini e emozioni. Ma il governo della società è un’altra cosa e anche in Francia se ne accorgeranno presto anche coloro che aspettano il fine settimana per alzare barricate e incendiare auto.

*Editoriale apparso sui quotidiani “Il Mattino” e “Il Messaggero” del 10 dicembre 2018

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked (required)