di Alessandro Campi

SIMBOLI-PARTITI_NAMINGi-1È un curioso gioco (politico) di specchi e simmetrie quello che si sta realizzando in questi giorni tra Roma e Napoli, con la crisi drammatica del centrodestra che si riflette in quella non meno preoccupante del centrosinistra, sino a sovrapporsi e a risultare speculari, dal momento che entrambe si alimentano con ogni evidenza delle stesse ragioni profonde: il collasso della sovranità dei partiti di massa, la crisi dei modelli organizzativi intorno ai quale questi ultimi si sono storicamente costruiti, il prevalere di un personalismo esasperato laddove è ormai venuto meno qualunque altro cemento, ideologico o sentimentale. E tutto ciò mentre in entrambe le città si sta rafforzando un’alternativa politica e di governo, quella cosiddetta populista e antistema, il cui alimento principale è rappresentato proprio dalla condizioni di sfascio e disorientamento nel quale versano le forze politiche tradizionali.

La lotta per le candidature è solo il segnale più evidente della crisi – strutturale e strategica – che attanaglia il Pd come anche la coalizione berlusconiana. A Napoli non sono bastate le primarie, perse di misura da Bassolino, per convincere quest’ultimo a rinunciare alle sue (pur legittime) ambizioni. Un tempo, soprattutto a sinistra, contavano molto la disciplina di partito, che consentiva di ricucire alla fine qualunque strappo o dissapore, e l’orgoglio di appartenere ad una comunità politica il cui bene era considerato primario e preponderante rispetto all’interesse dei singoli. Ma tutto ciò non vale più nulla o conta assai poco. Per senso di risalta e spirito di vendetta si arriva quasi a sperare che la propria parte politica possa perdere o andare incontro alla rovina: un atteggiamento autolesionistico e cinico che in passato sarebbe stato inconcepibile.

Egualmente a Roma non è stato sufficiente organizzare un plebiscito (peraltro assai discutibile nelle sue procedure) sul nome di Guido Bertolaso per far recedere Giorgia Meloni dal suo proposito – giunto effettivamente dopo troppi ripensamenti e ondeggiamenti – di candidarsi alla guida del Campidoglio. In un tempo nemmeno troppo lontano nel centrodestra la parola del capo – Berlusconi – era legge. E comunque bastavano il suo carisma oggettivo, il suo senso pratico e i suoi modi personalmente avviluppanti per tenere unito quel mondo variegato, che comprendeva i separatisti della Lega, non pochi sopravvissuti socialisti e democristiani della Prima Repubblica e gli eredi del neofascismo. Oggi Berlusconi si atteggia ancora a federatore, ispiratore, padre nobile e guida morale senza avvedersi che nel frattempo il mondo su cui governava si è semplicemente sfasciato. È rimasto senza idee, si è dissanguato a furia di diaspore e allontanamenti coatti, non ha nemmeno provato capire il senso della sfida politica lanciato dai nuovi arrivati sulla scena politica, da Renzi a Grillo.

In queste vicende di irrisolutezza e ritardi – che gli elettori certo puniranno e che non poco contribuiranno a far aumentare il numero già alto degli astensionisti e dei disgustati dalla politica – i personalismi e la spregiudicatezza tattica dei singoli hanno certamente un peso importante. Ma il problema, al di là delle persone, è evidentemente il fatto che non esistono più meccanismi, regole e costumanze che possano rendere le decisioni assunte all’interno di un partito o di una coalizione vincolanti e non reversibili.

I vertici dei partiti, per quanto chi li guida si affanni a presentarsi come risoluto e determinato, semplicemente non controllano la macchina di cui possiedono le chiavi. Si scontrano ormai quotidianamente con apparati e gruppi dirigenti che, specie sul territorio e nelle periferie, operano in condizioni di crescente autonomia. L’unico collante che questi partiti – un tempo accusati di essere gabbie o caserme per i loro adepti – riescono ad avere diviene così quello del potere reale o della possibilità di conquistarlo per spartirselo pro quota, secondo i gruppi e le consorterie che li compongono.

Il collasso della sovranità dei partiti vuol dire esattamente questo: che sono diventati gusci politicamente vuoti, ai quali attribuiscono valore e capacità d’indirizzo solo coloro che occupano al loro interno qualche ruolo o incarico. Con il crollo delle militanza e la secolarizzazione dell’elettorato, a tenere in vita i partiti sono ormai solo le strutture di apparato, peraltro sempre più striminzite e ridotte nel numero. Ma vuol dire anche che sono saltati ruoli di comando, i luoghi di discussione e decisione, i canali di comunicazione del centro del partito con le sue articolazioni periferiche, gli spazi di formazione delle nuove leve, gli strumenti di ascolto e dialogo con la società e la sua rete di interessi costituti. E sono altresì diventate aleatorie e sregolate le procedure di selezione del personale politico, a partire dai ranghi più bassi. Quando va bene ci si affida alla lealtà o conoscenza personale, altrimenti si sceglie privilegiando le connessioni affaristiche, le logiche caporalesche e clientelari o più tradizionalmente i vincoli di consanguineità.

Sullo sfondo di questo processo di sfarinamento dei partiti – per alzare lo sguardo oltre Roma e Napoli – c’è naturalmente la crisi sempre più conclamata della democrazia rappresentativa classica e dei suoi istituti tradizionali. Che è crisi al tempo stesso di legittimità e di efficacia, nonché di gruppi dirigenti. Le democrazie – quella italiana non è certo l’eccezione su scala europea – hanno semplicemente perso di consenso e credibilità, ma soprattutto vengono sempre più percepite come inefficienti o inadatte rispetto alla grandezza e gravità delle sfide che dovrebbero affrontare e risolvere, si tratti della crisi economica o dell’immigrazione. Ed essendo i partiti – quelli tradizionali di destra e di sinistra – l’architrave storica di questi sistemi è normale che su di essi e sui loro vertici si vada scaricando il malumore degli elettori. Ma se crescono la separatezza e la sfiducia tra cittadini e partiti questi ultimi finiscono per chiudersi sempre più in se stessi, per divenire autoreferenziali, per divenire oggetto di contesa di cricche e fazioni, per dotarsi di un personale avventizio e di risulta, malato di carrierismo, visto che con la politica e i suoi cattivi costumi la gente che si reputa normale e perbene vuole avere sempre meno a che fare.

Il problema (o se si vuole il dramma) è che queste logiche distorte e distorcenti si trovano esasperate anche in quelle formazioni che si presentano invece come radicalmente innovative e che sono nate proprio dalla protesta contro la vecchia partitocrazia. A Napoli, quello di De Magistris è poco più di un clan amicale. Nel M5S per ascendere ad un ruolo politico basta il consenso di qualche centinaio di smanettatori in rete (come il Brambilla spuntato ieri come candidato per Napoli come una consultazione alla quale hanno partecipato un pungo di persone) o la benedizione dall’alto dell’esoterista che ne detiene il marchio legale e ne controlla orwellianamente le comunicazioni interne. Il futuro della democrazia, se sono questi ultimi a doverla rinnovare, davvero non promette bene.

* Editoriale apparso sul “Mattino” (Napoli) del 16 marzo 2016

 

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