di Emidio Diodato

“Nel 1946 un quarantatreenne inglese, Eric Blair, affittò una casa ai confini del mondo. Era la casa nella quale pensava di morire. Si trovava sulla punta settentrionale dell’isola scozzese di Jura, alla fine di un sentiero sterrato, impossibile da raggiungere in automobile, priva di telefono e di energia elettrica. Il negozio più vicino, l’unico dell’isola, si trovava a 40 chilometri più a sud. Blair aveva delle buone ragioni per cercare l’isolamento. Prostrato dalla recente scomparsa della moglie, era affetto da tubercolosi e presto avrebbe cominciato a sputare sangue. Il suo paese vacillava sotto il peso di una vittoria militare che non aveva portato né sicurezza né prosperità, e neppure la garanzia che la libertà sarebbe sopravvissuta. L’Europa si stava dividendo in due schieramenti ostili e il resto del mondo sembrava deciso a seguirne l’esempio. Il probabile impiego di bombe atomiche avrebbe reso qualsiasi nuova guerra un evento apocalittico. E Blair aveva un romanzo da finire. Il titolo era 1984, ottenuto invertendo le ultime due cifre dell’anno in cui il lavoro venne completato. Il romanzo fu pubblicato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti nel 1949 e firmato con lo pseudonimo di George Orwell”.

Con questo efficace incipit lo storico e geopolitico statunitense John Lewis Gaddis diede alle stampe, nel 2005, il saggio The Cold War. Dall’anno della sua pubblicazione, il romanzo 1984 aveva rappresentato per migliaia di lettori l’incubo di un’epoca nella quale il totalitarismo avrebbe trionfato, l’individualità sarebbe stata soffocata e la guerra sarebbe divenuta una condizione di vita permanente. Per Gaddis questo incubo aveva segnato la guerra fredda ed era rimasto vivo fino alla sera del 16 gennaio 1984, quando con un celebre discorso radiotelevisivo Ronald Reagan mise in moto una sequenza di avvenimenti che avrebbe portato al crollo dell’Unione Sovietica, l’ultima potenza totalitaria. Nella prima metà del Novecento, sia l’Unione Sovietica che gli Stati Uniti erano entrati in guerra a seguito di attacchi a sorpresa: l’invasione tedesca iniziata il 22 giugno 1941 e l’attacco giapponese di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941. Dopo aver resistito a tali aggressioni e dopo aver sconfitto i disegni geopolitici dei loro avversari, le due superpotenze iniziarono però a contrapporsi con una temibile escalation nucleare. Da allora fu chiaro che il totalitarismo non era l’unica cosa che il mondo avrebbe dovuto temere. Gli stessi mezzi e armi che avevano deciso la resa della Germania e del Giappone, ossia il potere aereo e le bombe atomiche, avevano aperto un’epoca di grande inquietudine.

In una importante e autorevole opera – La geopolitica del Novecento. Dai Grandi Spazi delle dittature alla decolonizzazione (Bruno Mondadori 2011) anche Mario G. Losano ha preso spunto da Orwell. A suo avviso, “gli Stati in guerra descritti in 1984 non sono diversi dai vasti agglomerati degli Stati esistenti durante la seconda guerra mondiale (essi sono, in altre parole, Grandi Spazi); né le torsioni violente cui la «neolingua» sottopone il linguaggio corrente sono un puro espediente letterario: per rendersene conto basta leggere il progetto di trattato, dove «libertà», «sovranità», «amicizia», «prosperità», «indipendenza» significano il loro esatto contrario.” Il professor Losano si riferisce a un trattato mai approvato del 23 febbraio 1943 sui Grandi Spazi europei e asiatici, ma il cui testo è conservato nell’Archivio politico del Ministero degli Esteri tedesco: un progetto di spartizione del mondo tra gli Stati dell’Asse nazi-fascista (Germania, Giappone e Italia). Come nel romanzo 1984, nel quale la chiarezza linguistica e l’onestà storica soccombono di fronte al potere totalitario degli Stati in guerra, la dottrina giuridica dei Grandi Spazi che emerge da quel documento e dalla pubblicistica del tempo, ad esempio nell’opera di Carl Schmitt, introduce una sorta di neolingua che stravolge il linguaggio giuridico corrente. Questa neolingua, prosegue Losano, è tanto più pericolosa quanto più si annida, ingenuamente o acriticamente, nella pubblicistica contemporanea che accompagna, dopo la fine della guerra fredda, il revival della geopolitica: ad esempio quando si interpreta l’Unione europea come un Grande Spazio geopolitico.

Allo stesso modo, nell’ottica di Losano, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica non sono da intendere come Grandi Spazi e né la guerra fredda come un’epoca orwelliana; anzi, è proprio durante questo periodo che si creano le condizioni per la decolonizzazione, un processo politico che segna il tramonto definitivo dei Grandi Spazi delle dittature e quindi della geopolitica del Novecento. Quest’ultima, infatti, non sarebbe nient’altro che la Geopolitik nazista di Carl Haushofer, tradotta in geoporitiku dal fascismo giapponese – prima di essere nipponizzata come chiseigaku nel 1925 – e quindi declinata nelle lingue latine dell’Italia fascista e delle dittature iberiche, spagnola e portoghese. Ciò che le terrebbe insieme sarebbe l’idea dei Grandi Spazi, ossia di formazioni politiche organizzate, come si legge nel progetto di trattato, in modo tale che «libertà», «sovranità», «amicizia», «prosperità» e «indipendenza» significhino il loro esatto contrario. Secondo la dottrina formulata ad esempio da Schmitt, i Grandi Spazi superano il concetto classico di sovranità territoriale a favore della creazione di qualcosa di analogo a Imperi sovranazionali nei quali uno Stato egemone vieta l’intervento di potenze esterne, limitando nei fatti la sovranità degli altri Stati. Se la dottrina di Schmitt resta, per molti versi, ambigua rispetto al legame sovranazionale che tiene unito un Grande Spazio, allora più chiara è, secondo Losano, la Geopolitik di Haushofer, il quale esplicita tale vincolo imperiale mediante il concetto di Spazio Vitale, ossia di un’area nella quale lo Stato egemone occupa un Grande Spazio in virtù di un diritto naturale, geograficamente determinato.

La lettura incrociata dei Grandi Spazi schmittiani e dello Spazio Vitale haushoferiano è nodale e imprescindibile per la ricostruzione di Losano. Se il rapporto tra Schmitt (anche quello del Nomos) e la geopolitica è affermato con convinzione dal’autore, ciò non avviene in forza di quel contributo che Schmitt rese alla concettualizzazione dell’ordinamento globale, quale versione non formalistica ma appunto geopolitica dell’ordine globale – un contributo che fa del giurista tedesco uno dei principali autori di ciò che altrove ho definito “scienza politica del globale” –; piuttosto i Grandi Spazi schmittiani sono intesi da Losano come una sorta di concetto-nomade che consente di traghettare la geopolitica (quella delle dittature nazi-fasciste) nell’alveo del diritto internazionale, come mostrerebbe il progetto di trattato del 1943. Determinante per la tenuta di questo legame è l’interpretazione della dottrina Monroe, vale a dire di quel principio di politica estera enunciato nel 1823 dal presidente degli Stati Uniti e che può essere considerato come la prima formulazione del diritto da parte di uno Stato egemone di vietare l’intervento di potenze esterne dalla propria area d’influenza. Schmitt avrebbe voluto trasformare quella proclamazione unilaterale in un nuovo tipo di diritto internazionale che, qualora l’esito della seconda guerra mondiale fosse stato differente, probabilmente avrebbe regolato i rapporti di potere in uno scenario orwelliano. Il progetto fallì e il legame pan-totalitario fu reciso con la sconfitta dell’Asse nazi-fascista.

La conclusione di quella stagione geopolitica si ebbe, però, solo il 10 novembre 1961, quando – secondo Losano – un aereo che collegava Casablanca a Lisbona fu dirottato e da esso venero lanciati manifestini antisalazaristi. Dall’annotazione di questo evento, il libro di Losano assume un ritmo e una piegatura del tutto appassionanti. La conclusione del libro di Losano è molto raffinata e l’immagine di un aereo che da una periferia va verso la madrepatria ne rappresenta la prova, forse inconsapevole. Come in un capovolgimento storico, infatti, è la decolonizzazione che vince sui Grandi Spazi delle dittature. Ciò avvenne ovunque, nel corso del dopoguerra, ma in modo magistrale nel piccolo Portogallo dell’Estado Novo (1933-1974) di António de Oliveira Salazar, con un trapasso dolce – anche se ritardato – che vedrà protagonisti, da una parte, la dittatura di una grande ex colonia, l’Estado Novo (1937-1945) del Brasile di Getúlio Vargas, e, dall’altra, l’opera di un anti-Haushofer, il socio-antropologo brasiliano Gilberto Freyre. 

Va detto che non c’è, in realtà, un capitolo conclusivo nel libro di Losano. Tuttavia, dopo aver stancato il lettore con un dettaglio di fatti che, come ammette lo stesso autore (ma ci torneremo), in alcuni casi hanno poco a che vedere con la geopolitica, a p. 285 Losano si immedesima in Gilberto Freyre e gli affida il compito di colpire a morte la geopolitica del Novecento. La passione per i fatti del brasiliano, chiarisce Losano, “finisce per spazientire più di un critico, che lo accusa – come João Ribeiro – di «non concludere». Ma per Gilberto Freyre la conclusione è già nella realtà plurale del Brasile: c’è solo da conoscerla; non c’è nulla da dimostrare”. Siccome nella realtà plurale del Brasile si riflette, esattamente al contrario, la realtà totalitaria della geopolitica del Novecento, vale a dire la dottrina dei Grandi Spazi di cui il dittatore portoghese Salazar fu ultimo interprete, allora Losano sembra dirci che egli stesso non ha bisogno di un capitolo conclusivo, poiché la geopolitica del Novecento è solo da conoscere e da portare a compimento.

Tra le declinazioni nazionali della Geopolitik, quella portoghese è l’ultima non solo in ordine di tempo ma anche di spazio. Il problema geopolitico del Portogallo è la sua dimensione, ossia di essere un piccolo paese. Proprio questa debolezza creò le condizioni per un colpo mortale alle sue ambizioni di Grande Spazio, una sorta di nemesi storica. L’epilogo ebbe inizio nel 1951, l’anno del primo volo dal Brasile verso Lisbona dell’«alleato inaspettato» Freyre; per concludersi nel 1961 (l’annus horribilis dei manifestini antisalazaristi, nonché dell’inizio della ribellione anti-coloniale in Angola) con la pubblicazione della raccolta di scritti L’ultima difesa del tropico lusitano. Freyre era un autore internazionalmente noto per una visione originale del mondo tropico-lusitano, fondata sul meticciato e l’armonia sociale tipicamente brasiliane. Si era opposto alla geopolitica tedesca in Brasile e anche allo Estado Novo brasiliano. Tuttavia, per reagire ai movimenti anti-coloniali e per tentare un’improbabile terza via tra Stati Uniti e Unione Sovietica, il professor Salazar invitò Freyre in Portogallo quale cantore di un mondo luso-tropicale nel quale la colonizzazione non aveva avuto il carattere di rapina, tipicamente anglo-francese, ma aveva proceduto in modo conciliante e cristianizzante. Tuttavia, proprio con il contributo di Freyre il Portogallo si spinse inevitabilmente verso la fine del suo impero coloniale. Il brasiliano non solo era un alleato inaspettato, ma era anche un cantore improprio della grandezza portoghese. In che misura l’ultima difesa del colonialismo europeo fosse anti-storica – producendo un rovesciamento e non un sostegno – lo avrebbero dimostrato le guerre de Libertação anti-coloniale a iniziare da quella angolana. Presto la dittatura fu superata tanto in Portogallo quanto in Brasile.

Il riferimento al 1961 è molto utile per ripensare il Novecento. Penso si tratti di una data più importante del 1984 di Reagan. Il 1961 è l’anno simbolo della libertà, delle speranze di prosperità e dell’indipendenza del continente africano. Ma cosa ci dice oggi quella data? Dopo 50 anni, l’Africa ha raggiunto un miliardo di abitanti e non ha superato i suoi problemi di sottosviluppo. Il tema dell’impegno metropolitano europeo è tornato d’attualità, così come la riflessione sul ruolo egemonico degli Stati Uniti e sull’impegno continentale della Cina. Il Sud Africa sta acquisendo un rilievo internazionale, anche grazie all’alleanza con il Brasile e l’India, tuttavia mostrando tanto il crescente ruolo di Stati che emergono dal mondo post-coloniale, quanto il permanere di una irriducibile asimmetria nei rapporti di potere tra Stati o sovranità. Tale asimmetria, molto spesso, è percepita a tutte le latitudini come l’unica via per piegare l’anarchia internazionale in ordine politico. Conclusa la guerra fredda, il dibattito politologico è così tornato sul tema della polarizzazione e della costruzione di legittimità geopolitiche entro grandi spazi metropolitani o di civiltà. Soprattutto ciò è avvenuto allorché è apparso chiaro quanto, dietro la «cortina di ferro» del mondo bipolare, la decolonizzazione avesse già da tempo messo in moto processi geopolitici inediti. Successivamente, la fine della contrapposizione tra socialismo sovietico e democrazie liberali occidentali ha visto aumentare solo parzialmente le speranze di un ordine internazionale inteso, in senso cosmopolitico, quale prodotto della democratizzazione o della pace separata tra Stati democratici.

Il libro di Losano ha il merito di aver ricostruito una pagina essenziale della storia della geopolitica, la sua damnatio memoriae; tuttavia credo abbia il torto di aver riproposto troppo acriticamente l’equazione netta tra geopolitica e Geopolitik. Per anni abbiamo cercato di affrancarci da questo tabù, al fine di affermare il valore di un paradigma che consenta di pensare la politica mondiale a un livello intermedio tra nazionalismo e cosmopolitismo, quindi le relazioni internazionali quale interrelazione tra ambito regionale o regionalismo e arena globale o globalismo. Del resto, ciò che oggi si intende con geopolitica, quando si studiano le relazioni internazionali, non è riconducibile esclusivamente all’esperienza delle dittature dei Grandi Spazi, neppure può essere riferito a quelle tradizioni militariste che, sommariamente, ne hanno tenuto vivo il ricordo nelle scuole di guerra. Inseguendo l’impiego della parola, si rischia troppo spesso di smarrire “cosa” significa geopolitica (si veda a questo proposito l’intervento di Damiano Palano pubblicato da questa Rivista di politica on line). Il problema è che poco o nulla hanno capito di geopolitica tutti quegli ufficiali che, nel corso del Novecento, si sono riempiti i polmoni con espressioni come “il grande geopolitico italiano” o “l’insigne generale tedesco”. D’altronde, anche Losano ne è perfettamente consapevole quando, ad esempio, sfogliano il catalogo dei luoghi comuni della geopolitica italiana incontra l’ufficiale Giulio Dohuet e ne riconosce “la natura non geopolitica” (p. 173). Penso che per scrivere di geopolitica occorra spingersi ai confini del mondo, ma non per cercare l’isolamento come fece Eric Blair. Esattamente al contrario, oggi – più di un secolo fa – occorre viaggiare molto e lavorare in gruppo alla ricerca delle condizioni o possibilità di ordine ed equilibrio nell’arena globale. Per quanto ci riguarda, ciò è pensabile solo in chiave europea.

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