di Leonardo Varasano
“Non vitae, sed scholae discimus”, studiamo non per la vita reale ma per la scuola, scriveva Seneca a Lucilio (libro XVIII, epistola 106). Il noto – e spesso stravolto nel significato – aforisma del filosofo romano pare ormai consegnato alla storia. Non si studia più né per la vita né per la scuola, e neppure, come sosteneva Aristotele – stando a quanto riferisce Diogene Laerzio nelle sue “Vite dei filosofi” -, per prepararsi alla vecchiaia. Semplicemente, in molti casi, non si studia. E i risultati, inevitabilmente pessimi, si vedono.
L’agonia della scuola italiana – di ogni ordine e grado – progredisce inesorabilmente, a prescindere dai governi e dai ministri che si avvicendano. Lo stato comatoso del nostro sistema d’istruzione trova purtroppo continue conferme: stando al recente “Rapporto sulla scuola in Italia 2011”, curato dalla Fondazione Agnelli ed interamente dedicato alla scuola secondaria di primo grado, il nostro è il Paese con il calo di apprendimento più netto nel passaggio tra elementari e medie. Il confronto con la Cina e con la Norvegia, ma anche con la vicina Slovenia, è umiliante. Il sistema formativo italiano, si legge nel rapporto, si basa “sul deleterio principio di non selettività” che segue una logica di “equità al ribasso”. Questa pervicace tendenza ad accontentarsi porta con sé un imbarazzante scadimento culturale: sette italiani su dieci non hanno alcuna padronanza della loro lingua – presupposto indispensabile per lo sviluppo dell’individuo e della collettività -; cresce l’analfabetismo “di ritorno”. Leggere e comprendere un testo di media difficoltà è per molti, come rivelano i risultati dei test Ocse Pisa (Programme for International Student Assessment), un’impresa durissima.
L’attuale, penosa condizione della scuola italiana è il prodotto sedimentato di una serie di concause. Negli ultimi decenni, tra una riforma e l’altra, si è provveduto a depauperare quanto di meglio avevamo, dalla scuola elementare al liceo Classico; si è optato, con evidente provincialismo, per una pedagogia “democratica” adottata, con esiti fallimentari, in altri Paesi qualche lustro fa; si è sminuito il ruolo del docente; si è svilito l’insegnamento della grammatica e dell’ortografia; si è preferito distruggere i contenuti in favore della tecnologia e del metodo; si è accantonato l’italiano in favore di ogni tipo di disciplina, dallo studio del codice della strada all’educazione sessuale; al tradizionale, formativo tema si sono anteposti quiz e test demenziali, tanto che una verifica di storia può prevedere non la formulazione di pensieri e concetti ma l’inserimento di “parole mancanti” (!) in un brano predefinito.
Se a ciò si aggiungono un corpo docenti in larga parte demotivato – non di rado arruolato secondo criteri banalmente burocratici – e schiere di alunni decisamente più a loro agio con un iPhone che con un testo di letteratura, si capisce bene perché la scuola italiana sia ormai una istituzione in cui è quasi sempre domenica e lo studio è un accessorio, neppure troppo ingombrante. Nei nostri istituti non è più importante (o quasi) imparare la lingua madre. Fin da bambini ci si abitua a protestare, a invocare (presunti) diritti acquisiti, a ribellarsi contro ogni autorità: molti giovanissimi “studenti”, già incrostati d’ignoranza, non leggono e non conoscono la sintassi ma sanno bene come ci si muove durante una contestazione.
Accantonate le regole e i fermenti del sapere, non rimangono che le occupazioni, le manifestazioni di piazza e le proteste. Contro Letizia Moratti, contro Mariastella Gelmini, contro Mario Monti (è già successo lo scorso 17 novembre). O contro Oscar Giannino, il giornalista aggredito giorni fa all’università Statale di Milano prima di una conferenza organizzata da Azione Universitaria. Cambiano i governi, restano la crisi della scuola e le contestazioni. Intolleranti, sterili e troppo spesso violente.
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