di Alessandro Campi

Un sociologo tedesco – Ulrich Beck – è diventato riverito e famoso per aver teorizzato la cosiddetta “società dl rischio”. Che poi sarebbe la società nella quale oggi viviamo, caratterizzata appunto da sempre maggiori fattori di rischio, prodotti non più – come nelle società tradizionali – dalla natura (alluvioni, terremoti, ecc.), ma dall’azione stessa dell’uomo. Insomma, per farla breve e possibilmente facile, viviamo – grazie al progresso e alla modernizzazione – in un mondo strutturalmente incline al rischio, che non è solo quello reale ma anche quello percepito, che non è solo quello straordinario (un crac finanziario o l’esplosione di una centrale nucleare) ma soprattutto quello ordinario e quotidiano (basta pensare ai rischi che corriamo attraversando la strada, andando al lavoro o facendo le pulizie in casa), e che non può essere affrontato esclusivamente sul piano individuale, ma deve essere risolto a livello collettivo.

Bene, senza la pretesa di diventare riverito e famoso come Beck, la mia idea è che quella contemporanea sia piuttosto la “società dell’allarme”: viviamo cioè in un mondo che ormai inclina strutturalmente agli stati d’ansia collettiva, nel quale ogni evento – naturale o sociale – che si annunci come appena straordinario viene considerato foriero di conseguenze catastrofiche e letali. Insomma, la nostra è una società votata al disastro, che quasi sempre è però soltanto annunciato e temuto. Siamo diventati allarmisti, e siamo sottoposti a continui allarmi, spesso gratuiti e inutili o (il che è peggio) costruiti ad arte, con la conseguenza di non stare mai tranquilli e di vivere in una condizione di profonda inquietudine.

Vi faccio l’ultimo esempio di una simile strategia dell’allarme sociale, che ormai sta diventando la norma del nostro vivere, così ci capiamo meglio. L’altra notte – sulla base di un improvvido messaggio messo in rete da un sindaco eccessivamente solerte – centinaia di persone nella Garfagnana sono state costrette a trascorrere la notte all’aperto dal timore di un terremoto che naturalmente non si è verificato ma che era stato, appunto, annunciato come possibile. Da quello che si è scoperto nelle ore successive, nessuna autorità pubblica – a partire dalla Protezione civile – aveva ufficialmente lanciato uno stato d’allarme. Ma ciò non ha impedito il diffondersi del panico e della paura a partire da un semplice tweet, scritto con ogni probabilità per una sola ragione: scaricarsi da ogni responsabilità nel caso – foss’anche remoto – che qualcosa di grave accadesse davvero.

Come i lettori sanno, nel nostro codice esiste il reato di procurato allarme. Se io mi metto a gridare “c’è una bomba” in un locale, scatenando il panico tra gli avventori e magari causando qualche ferito per la calca, mi becco una bella denuncia. Ma anche sottovalutare un allarme o un pericolo può causare problemi con la legge, come ben sanno gli scienziati membri della Commissione Grandi Rischi, che sono stati recentemente condannati dal Tribunale dell’Aquila per aver offerto una valutazione “approssimativa, generica e inefficace” del rischio sismico che nella notte del 6 aprile 2009 provocò nella città abruzzese oltre 300 morti.

La morale che si ricava da quest’ultima vicenda è che, nell’incertezza su ciò che potrebbe capitare, è meglio prepararsi al peggio e prefigurare lo scenario più catastrofico, per scaricarsi da ogni responsabilità, come appunto ha fatto l’altro giorno il sindaco di Castelnuovo Garfagnana. E pazienza se per i cittadini una simile scelta si traduce in un disagio fisico (dormire all’aperto, per di più in inverno) e psicologico (la paura e il senso d’ansia che ti mette addosso l’idea di dover affrontare un terremoto, col pensiero di perdere la vita, gli affetti e la casa)

D’altro canto basta vedere come ormai si comportano i medici con i pazienti per capire cos’è la “cultura dell’allarme”. Quale che sia il malanno di cui soffrite, fateci caso, vi prospetteranno l’esito peggiore e le conseguenze potenzialmente più gravi: loro dicono per garantire un’informazione completa e per dovere professionale, io dico per evitare complicazioni ed eccessive responsabilità semmai dovesse accadere qualcosa di estremo o di irreparabile. Anche in questo caso, pazienza per la condizione di stress e di preoccupazione nella quale si precipita il povero cittadino quando gli si fa capire che la malattia di cui soffre non è mortale, ma insomma, non si può mai sapere, c’è sempre il rischio di complicazioni, bisogna stare attenti agli effetti collaterali, può sempre verificarsi qualcosa di inaspettato, e via allarmando.

Ma l’allarme – ed è questo il vero problema – è anche una strategia grazie alla quale si possono lucrare profitti ingenti e si possono orientare i comportamenti collettivi. Pensate a quel che è successo negli ultimi dieci anni su scala globale. Abbiamo avuto ondate di panico collettivo che nemmeno ai tempo della peste medievale: prima la mucca pazza, poi la febbre suina, poi l’aviaria. Dovevano essere pandemie, sono state delle bufale, che però hanno costretto i governi a piani d’emergenza, all’acquisto di tonnellate di inutili vaccini, a campagne di informazione e prevenzione, il cui unico effetto è stato quello di arricchire vieppiù le case farmaceutiche e di alimentare per settimane il circuito malsano dell’informazione.

Ma si potrebbero citare anche il buco dell’ozono e il baco del millennio (ma vi ricordate quale cataclisma informatico, che naturalmente non c’è stato, ci si aspettava al passaggio all’anno 2000?), la minaccia dell’antrace dopo l’attentato alle Torri Gemelle e il timore nel mangiare l’insalata dopo l’incidente alla centrale di Cernobil. Tutti eventi o episodi che hanno prodotto grandi paure e stati d’ansia, ma che al dunque si sono risolti in bluff apocalittici, in veri e propri psicodrammi collettivi.

La verità è che un’umanità fragile ed esposta ad una paura costante, magari indotta ad arte e per ragioni strumentali, è facilmente governabile e facilmente manipolabile. La “società dell’allarme” è inoltre quella in cui più nessuno, nemmeno chi riveste ruoli di vertice, si assume responsabilità dirette.

Il rischio, per quanto grave, si affronta e stimola la nostra capacità di reazione. L’allarme, per quanto labile, si subisce e ci lascia in una condizione di impotenza. Non per contraddire Beck, che è un sociologo eminente, ma temo che la nostra condizione odierna sia segnata più dall’ansia per eventi che ci appaiono come apocalittici che dalla paura per un futuro che non riusciamo a programmare.

 

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