di Giuseppe Balistreri

Sollecitati dai tempi nuovi e dalle nuove forze politiche presenti in parlamento, poniamo una domanda: quello che manca oggi in Italia è più la democrazia o la classe dirigente? Soffriamo più per la democrazia usurpata dai partiti o per la mancanza di una classe dirigente? Certo, le due cose in qualche modo sono legate, soprattutto se si pensa che il tasso di democrazia di un paese si abbassa non solo quando i cittadini non possono decidere l’indirizzo politico, ma soprattutto quando gli stessi partiti non ne hanno più alcuno e cessano così di essere rappresentanza politica effettiva del paese. Vale a dire dal momento in cui i partiti hanno cessato di svolgere il ruolo di guida del paese. Il compito dei partiti consiste nell’armonizzare gli interessi e le vedute di parte dei cittadini, di darne espressione e nello stesso tempo di portarli ad una sintesi. In questo modo si ha il passaggio dalla sfera privata a quella pubblica. I partiti hanno la funzione di operare questo passaggio. Essi fanno da tramite tra i cittadini che non guardano al di là del loro naso ed uno Stato che (almeno nella sua idea) tendenzialmente dovrebbe occuparsi solo del bene comune senza riguardo agli interessi privati di nessuno. I partiti ci sono per soddisfare contemporaneamente gli interessi privati e le esigenze comuni. Essi da un lato sentono le aspirazioni non politiche del popolo, dall’altro le traducono in istanze politiche, danno loro valenza pubblica, le fanno parlare con voce nuova, rivestendole di progetto politico.

È chiaro che tornare indietro, e cioè sbarazzarsi dei partiti perché questi non sono più in grado di svolgere la loro funzione, e pretendere che da questo momento in poi siano i cittadini stessi a portare avanti i loro interessi, non serve a nulla ed anzi non può che aggravare la situazione. L’immediata espressione dei cittadini produce infatti contrasto e conflitto ed è anche bene che sia così, perché ognuno deve badare a se stesso e non si può occupare anche dei problemi degli altri. Non tocca a me, in quanto privato e singolo cittadino, armonizzare i miei interessi con quelli degli altri. Questo è un altro compito che fuoriesce completamente dalle mie possibilità. Ci vuole dunque qualcuno che ponga le cose su un altro piano, laddove cioè i tanti singoli interessi siano nello stesso tempo compresi e trascesi. Qui finalmente incontriamo la politica che consiste proprio in questo compito: quello cioè del passaggio dal conflitto alla sintesi delle vedute parziali, per cui laddove fin ad allora si è avuta soltanto una miriade di individui o di gruppi particolari, si abbia ora una collettività che riconosce di essere qualcosa proprio nel suo vivere insieme, nel condividere la vita e i problemi dello stesso Paese. Questo non è qualcosa che possa sorgere soltanto proponendo ad ognun di noi di tanto in tanto quesiti come: qui c’è la vacca, come la vuoi bruna o pezzata? Non è che tutti decidiamo su tutte le cose e così diventiamo un unico popolo. Ci sentiamo italiani per qualcosa che eccede la nostra vita privata, anche se molti aspetti della nostra vita privata mostrano il nostro essere italiani. Quello di essere un popolo, di fare sorgere un popolo e di far sentire che apparteniamo ad un unico popolo è invece il compito specifico di una classe dirigente (sono le élites che fanno i popoli e non viceversa). Il fatto che noi non ci sentiamo più un popolo unito, il fatto che non riusciamo più ad offrire forza ed identità collettiva al nostro stare insieme, è dipeso soprattutto dalla nostra incapacità di esprimere una classe dirigente, principalmente dopo il disastro della prima repubblica. Solo dalla classe dirigente possiamo attenderci quello di cui abbiamo bisogno. Anche la salvaguardia del nostro benessere ben inteso. Ma mille votazioni all’anno in forma di democrazia diretta ed immediata, sulle questioni più diverse, non faranno mai di noi dei cittadini appartenenti allo stesso popolo. Ad ogni votazione ci divideremo e rimarremo divisi. Mancherà invece quell’impulso ad unirci che solo le classi dirigenti creano, proprio all’indomani delle votazioni in cui il popolo ha manifestato le sue divisioni. Votare in fondo significa dividersi, manifestare le proprie differenze. Ma se votando eleggiamo una rappresentanza degna di questo nome, allora ecco che proprio dalla divisione si produce una nuova sintesi. Il compito della classe dirigente è proprio questo, portare a sintesi quello che è diviso. Di conseguenza, il problema non è quello di rituffarsi indietro laddove c’è disunione, ma di ritrovare quella classe dirigente da cui ci ripromettiamo la nostra unità come popolo. Ora è chiaro, però che una classe dirigente non si elegge se non c’è già. Non sono le elezioni a creare le classi dirigenti. Le elezioni servono a sceglierle. E la maturità politica di un popolo consiste non nel decidere su tutto, ma in una cosa molto più semplice e cioè nel riconoscere tra coloro che ne richiedono il voto, chi sono quelli che possono dirigere il paese nel migliore modo possibile. Al popolo basterebbe avere questa unica e sola lungimiranza, piuttosto che reclamare il diuturno potere su tutte le cose per sé solo. L’elezione, una sola volta ogni cinque anni, di una buona rappresentanza, capace di decisioni politiche, ed in grado di interpretare il bene comune, ha più valore della migliore democrazia diretta, esercitata da tutti in tutti giorni della settimana, magari semplicemente cliccando su “mi piace”. Sono cose che non vanno confuse.

 

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