di Danilo Breschi
Democrazia, che cos’è dunque? “Se nessuno me lo chiede, lo so; se cerco di spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so”. Più o meno in questi termini, nelle sue “Confessioni”, Sant’Agostino parlava del tempo, non della democrazia, ma la medesima inafferrabilità contrassegna l’uno e l’altra. Qui voglio limitarmi a considerare democrazia quel sistema politico, quel modo cioè di organizzare e gestire la convivenza umana tra singoli individui, diversi e talora irriducibili gli uni agli altri, che si fonda sul consenso dei governati. Tale consenso si esprime sotto forma di “opinione pubblica”.
Opinione pubblica è l’espressione-simbolo della nuova civiltà del progresso che sorge tra la seconda metà del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, per poi espandersi nel corso di tutto quel secolo ed esplodere nel successivo. E su questa “esplosione” bisognerà tra breve soffermare la nostra attenzione. La civiltà del progresso è tale perché caratterizzata dalla pubblicità della conoscenza, dalla fine degli “arcana imperii” e dall’affermazione del diritto di tutti a sottoporre ad esame qualsiasi oggetto di discussione. È evidente che si tratti di un auspicio, dell’ideale regolativo della ragion pratica, per usare un termine del lessico con il quale si esprimeva Kant, il filosofo che più di altri fu ed è il simbolo di questa nuova civiltà che stava prendendo forma tra Sette e Ottocento.
La locuzione “opinione pubblica” evoca l’esistenza di una collettività che sarebbe capace di critica, altro termine-chiave dell’epoca, e centrale nella filosofia kantiana. Una collettività che sarebbe quasi naturalmente incline ad esercitare un controllo sul potere e su chi lo esercita. Ovviamente, non si tratta del demos, né di una estesa porzione della popolazione di uno Stato, ma di quella élite di letterati che hanno le risorse intellettuali necessarie ad educare una quota significativa di uomini – e anche, in prospettiva, donne – all’esercizio della facoltà di giudizio e di scelta di ciò che è considerabile come “bene pubblico”. Ne consegue la convinzione che la partecipazione alla cosa pubblica, alla sua costruzione e gestione, è potenzialmente estendibile ad un numero (relativamente) crescente di persone, che proprio per questo impegno partecipativo possono fregiarsi con maggior titolo della qualifica di “cittadini”.
Il comun denominatore dei componenti dell’“opinione pubblica”, l’elemento che fa esser loro tali, è la condivisione della cultura illuminista. Fino alla Rivoluzione francese la sfera pubblica è l’ambito di libero esercizio della ragione e della progettualità politica che si distingue dal pubblico potere e dalle sue istituzioni. Ma non ne costituisce un contraltare, un’alternativa inconciliabile; piuttosto, nell’intenzione dei philosophes prerivoluzionari, ne è un necessario sostegno e fattore di incentivazione a compiere riforme, in un rapporto che deve essere di collaborazione tra opinione pubblica e monarchie nazionali europee. I cultori della ragione diventano così gli alleati più fidati dell’“assolutismo illuminato”, ossia di quella versione riformatrice e modernizzatrice dell’esercizio monarchico del potere che essi vedono come la traduzione politica e istituzionale della nuova filosofia del progresso e dell’incivilimento. Il maggior nemico dei Lumi non era dunque la sovranità monarchica, bensì la cosiddetta “opinione popolare”, o “opinione comune”, che circolava non certo fra i ceti colti ma piuttosto fra le classi meno abbienti e illetterate, e si esprimeva come un insieme di atteggiamenti e mentalità diffuse imbevute di pregiudizio, credulità e superstizione. Gli ignoranti e i creduloni erano i veri avversari dei Lumi della Ragione. Almeno questa era la situazione fino alla vigilia del 1789.
Cosa significava e rappresentava originariamente “opinione pubblica” dunque lo deduciamo almeno in parte da queste brevi considerazioni storiche sopra esposte. Si trattava di una locuzione introdotta nel linguaggio filosofico e quindi politico della seconda metà del Settecento per segnalare un fenomeno molto concreto, ovverosia l’estensione del pubblico dei lettori, dei “consumatori di informazione”, dei frequentatori di circoli e associazioni culturali. Dopo il 1789 e l’avventura napoleonica la connotazione politica della locuzione crebbe di peso e andò sempre più ad indicare lo strumento di controllo dell’esercizio del potere che i ceti colti e abbienti della società potevano e dovevano adoperare, pena la perdita o riduzione di quei diritti di libertà che il costituzionalismo rivoluzionario aveva codificato tra regicidi e guerre, interne ed esterne.
Come è noto anche ai non addetti ai lavori, la teoria della democrazia postula l’esistenza di una pubblica opinione che, a sua volta, fonda un governo consentito, e cioè governi che sono condizionati dal consenso di quella opinione. L’opinione, ovviamente, si esprime mediante voto, con il momento delle elezioni dei governanti, tanto a livello locale quanto nazionale. La teoria della democrazia, inoltre, prescrive che il consenso è tale, e cioè libero e consapevole, se e solo se viene espresso da pubblici che possiedono opinioni autonome.
Detto ciò, se parliamo di opinione pubblica in democrazia constateremo presto, se soltanto ci addentrassimo in una minima ricerca empirica, che non vi è una opinione pubblica, ma tante opinioni di “molti pubblici”. O per meglio dire: quando si parla di “opinione pubblica” si intende l’opinione prevalente, o quella ritenuta tale, ma la domanda che sorge spontanea è: da chi? e perché?
(continua)
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