di Danilo Breschi  

homo vidensSe muta il modo con cui l’“uomo medio” (e per “uomo medio” si può intendere la media statistica degli uomini e delle donne abitanti le nostre democrazie) pensa e percepisce sé stesso e il mondo circostante è inevitabile che si modifichi progressivamente anche la tipologia di cittadino che abita e convive con gli altri membri di una data comunità politica. Soprattutto Sartori teme il potere dell’immagine, di quanto e come possa stravolgere la forma mentis dell’uomo medio, che è poi il “sovrano” delle nostre democrazie, o meglio: è il soggetto su cui la teoria della democrazia ha costruito i propri postulati.

Resta un po’ di sospetto sulla giaculatoria sartoriana contenuta nel libro “Homo videns. Televisione e post-pensiero” (Laterza, 1997), ovvero il timore che si tratti della solita reprimenda di fronte al cambiamento di chi non è più giovane e, tra nostalgie ed avversione alle novità, tesse le lodi dei tempi che furono e annuncia catastrofi per quelli che verranno. Detto ciò, non si può però negare che gli effetti di un’eventuale nuova civiltà dell’immagine difficilmente potranno essere interamente e precisamente decifrati da chi è nato, cresciuto, e magari anche invecchiato, dentro la civiltà della scrittura e della lettura. Chi minimizza fino all’eccesso il cosiddetto “video-potere” o potere dell’immagine propagata via televisione, ma ora anche via Internet, rischia di fare lo stesso errore di chi si fa profeta di sventura e pronostica apocalissi con la sicumera di un veggente e senza fornire dati scientifici.

Per stare al tema della democrazia e della sua crisi contemporanea, o per meglio dire, delle sfide odierne che è chiamata a fronteggiare, non possiamo nasconderci che oggi l’informazione è stata completamente sostituita dalla comunicazione, nuova parola-feticcio che ha peraltro alimentato negli ultimi vent’anni in Italia il proliferare di corsi di laurea e master di specializzazione sulla base di altissime aspettative di sbocchi professionali, prospettati come numerosi e tutti gratificanti.

In virtù della vera, grande rivoluzione consumatasi nel mondo negli ultimi vent’anni, e cioè l’avvento della informatica e telematica di massa, di uso personale e domestico, quotidiano e diuturno, il pubblico è oggi sommerso in poche ore da una quantità di notizie pari a quella che, fino a pochissimi decenni fa, riceveva in circa un anno. Proprio questo diluvio di messaggi, che si succedono l’uno dietro l’altro, che si accompagnano, o spesso sono preceduti, da miriadi di immagini, le più rutilanti e seducenti, rischiano di tramutare il “pubblico” e la sua “opinione” nel soggetto (od oggetto?) collettivo che si trova preponderante nella platea di un teatrino di burattini o di un circo con clown: ossia una folta schiera di bambini, spettatori a bocca aperta, ammutoliti o farneticanti, ora per l’eccitazione prodotta dalla inedita e fascinosa visione, ora per l’incapacità di comprendere a pieno quel che sta accadendo. L’afasia e lo stordimento sono provocati dai troppi elementi trasmessi in simultanea e sottoposti “a cascata” alla visione del bambino. Lo spettacolo prende forma e ha successo grazie alla miriade di emozioni suscitate tutte insieme nell’arco di un brevissimo lasso di tempo.

E così, tornando al mondo degli “adulti”, per effetto della rivoluzione informatica e telematica noi stiamo vivendo l’apparente paradosso per il quale più aumentano le notizie più diminuisce l’informazione. Il mondo reale scompare a vantaggio del mondo virtuale, e la capacità di elaborazione dell’individuo ne viene fortemente danneggiata. Sotto questo aspetto, la preoccupazione di Sartori è assolutamente condivisibile.

Alla fine, quel che sempre più si sentirà dire tra la popolazione, e già lo si sente dire, è l’affermazione: “non ci capisco più niente”, “so solo di non sapere nulla”. E, ahimè, non si tratta più dell’affermazione di colui che, socraticamente, si sta incamminando verso il raggiungimento della vera, genuina sapienza. È l’affermazione che vale per quel che dice: l’esito di tanto bombardamento mediatico è l’ignoranza più assoluta, con in più una certa insofferenza verso tutto ciò che vuole “informarti”. Di qui, indifferenza, apatia e rigetto di ogni occasione di dibattito, atteggiamento diffuso specialmente tra coloro che tra diciottesimo e diciannovesimo secolo sarebbero stati definiti come i leader naturali della “opinione pubblica”. I più istruiti, almeno secondo i criteri e le modalità della tradizionale e invecchiata “civiltà della lettura”, sono i soggetti più a rischio in questa trasformazione dell’informazione in comunicazione. Ma il fenomeno di disistima e/o indifferenza nei confronti dell’“informazione” mediatica è in crescita. E siccome la stampa sempre più si orienta ad inseguire i ritmi e le modalità comunicative della televisione, l’informazione cartacea comincia a soffrire della stessa disistima. In Italia, poi, la profonda divisione ideologica e la partitocrazia hanno già da tempo depotenziato autorevolezza e rispettabilità della carta stampata, “quarto potere” ieri in mano ai partiti politici e oggi a gruppi imprenditoriali che mal si configurano come quell’opinione pubblica teorizzata dai philosophes settecenteschi. Ma il fenomeno è globale, e permangono per ora forti dubbi sul fatto che Internet e i social network possano delineare nuovi gruppi di opinione estesi, efficaci e realmente alternativi ai criteri imposti dalla “società dello spettacolo”, che comunica ma non informa.

La comunicazione è l’informazione senza quel rapporto morale che dovrebbe esistere tra chi la fa e chi la riceve. Da questo rapporto scaturisce la fiducia o la sfiducia del pubblico nei confronti di questo o quel media. La prima illusione prodotta dalla rivoluzione tecnologica nel settore dei mass media è che l’immagine sia, di per sé, informazione. Molti registi televisivi hanno imparato, e non da ora, che se trovi le immagini giuste il testo diventa praticamente superfluo. Anzi, l’immagine, opportunamente selezionata e costruita, “è” il testo. Se manca l’intervento del giornalismo deontologicamente corretto, che appunto investiga, contestualizza, compara, “gerarchizza” e sintetizza, allora un cameraman, un regista o un montatore, quanto più sono abili tanto più possono rendere l’immagine mistificante rispetto alla realtà che pur si dichiara di voler “rappresentare”, e che invece si sostituisce e rimpiazza con un punto di vista ideologico e una parzialità che riflette interessi di varia natura. Sovente è lo stesso giornalista a compiere simili operazioni, e il cameraman si limita ad eseguire diligentemente.

Ciò che si vede (o meglio: viene fatto vedere) non è affatto scontato che sia quel che è. Nella scelta delle immagini più emozionanti, quelle che inibiscono le capacità di analisi e di comprensione del pubblico, non intervengono soltanto l’ideologia, l’autocensura e la disciplina di partito, ma anche quella deformazione professionale per cui si inseguono i ritmi serrati, le immagini impressionanti, al fine di fare lo “scoop” sempre e comunque, a tutti i costi. Gli indici di ascolto dettano legge e innescano un meccanismo perverso di rincorsa a chi non solo dà la notizia prima degli altri ma dà quella più eclatante, o la presenta nel modo più accattivante.

“Informare” dovrebbe voler dire non solo rendere noto qualcosa, ma investigare, porre in prospettiva, inserire nel contesto, gerarchizzare e controllare le fonti. Tutto questo va scomparendo, a maggior ragione da quando Internet consente a chiunque, anche un ragazzino di dieci anni, di “mettere in rete”, ossia far circolare a livello potenzialmente globale, qualsiasi messaggio o immagine. Eppure c’è chi a tal proposito parla con enfasi e senza alcuna cautela di trionfo della democrazia e di un suo irradiamento proprio grazie ai social network e alla comunicazione virtuale. Resta invece in noi il dubbio che senza partecipazione diretta, presenza fisica attiva in corpo e spirito, un sistema democratico degeneri facilmente in una oligarchia. Rispetto a questa prospettiva, persino una democrazia rappresentativa di stampo classico, ottocentesco, che seleziona le proprie élites in modo quasi endogamico, all’interno di una borghesia della cultura e del lavoro, sulla base di sistemi moderatamente censitari, appare meno “formalistica” e “ipocrita” di un sistema dove tutti comunicano ma quasi nessuno decide.

Si dirà che la moltiplicazione delle voci, comprese quelle del dissenso, arricchirà il pluralismo dei nostri sistemi e impedirà ai veri potenti di spadroneggiare perché finché c’è elezione c’è necessità di consenso. Può darsi, ma il rischio che l’esito di tanta “informazione” sia solo una enorme cacofonia paralizzante non può essere del tutto e preventivamente escluso.

Sarebbe inutile, oltre che presuntuoso, tentare qualche prognosi dopo una simile diagnosi, che è, ne siamo ben consapevoli, del tutto lacunosa e impressionistica. Resta però la convinzione che non si possa prescindere da un certo tipo di umanità e da un certo tipo di civiltà, ossia da un sistema più o meno strutturato di valori e giudizi, se si vuole ancora parlare di democrazia come governo periodicamente condiviso dalla gran parte della popolazione, i cui componenti, uomini e donne, possano essere un giorno governanti come oggi sono governati. Un sistema in cui il potere “pubblico”, ossia conferito dai governati, non diventi facilmente rendita di posizione e strumento di scambio di favori.

(3/3. Fine)

 

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