di Giuseppe Balistreri

Alla metà degli anni ’90 non è stato facile far emergere, dalla crisi della prima repubblica, un polo di centro-destra in un contesto come quello italiano in cui praticamente la destra istituzionale o era del tutto scomparsa o faceva timidamente capolino dentro la Dc o si manifestava in qualche minuscolo suo alleato. Il sistema politico si assestò in una singolare configurazione: non era praticabile una alternativa di sinistra, in quanto qui primeggiava il partito comunista, e non era percorribile un’alternativa di destra perché qui si era fatto il vuoto più totale (votare Msi significava di fatto porsi fuori dal sistema).

Così si è andati avanti per anni con un centro ingessato che non consentiva passaggi né a destra (dove non c’era alcuna offerta politica spendibile) né a sinistra (dove l’offerta politica era incompatibile con la stabilità del sistema interno e internazionale). L’unica scelta tendente ad introdurre un po’ di gioco nel sistema politico fu il centro-sinistra, e questa però fu, come tutte le soluzioni di ripiego, una scelta sbagliata. Infatti, si sprecò così l’unica forza, quella socialista, che avrebbe potuto costituire un’alternativa alla Dc e la cui affermazione avrebbe aperto uno spazio a destra. Invece, si andò avanti con la forza troppo ingombrante dei comunisti, da un lato, e il posto sgombro della destra, dall’altro.

La forte polarizzazione dell’elettorato verso Dc e Pci, dunque gli elementi di divisione che in questo modo si facevano valere, proprio in quanto tra i due partiti l’alternativa era un radicale aut-aut, hanno impedito l’affermazione di altre forze politiche che, per quanto avversarie, avrebbero potuto rappresentare scelte diverse di tipo non decisamente antagonistico e dunque tra loro compatibili (come invece non lo erano il Pci e la Dc).

Possiamo parlare dunque a questo proposito di voto radicalizzato. Il quadro avrebbe potuto mettersi in movimento, solo se si fosse rotto il duopolio Dc-Pci, laddove cioè gli italiani avessero veramente optato per soluzioni moderate e tra loro compatibili (e quindi solo se avessero deradicalizzato le loro scelte elettorali). Invece, a sinistra, la logica della radicalizzazione portava a vedere nel voto al Psi una scelta poco incisiva rispetto al Pci (certo c’è stato anche il limite del Psi nel capire quale avrebbe dovuto essere la sua offerta politica, distaccandosi per tempo dall’abbraccio comunista, il che quando è avvenuto con Saragat, ha provocato solo un indebolimento dell’area socialista), eppure solo il primato del Psi a sinistra avrebbe potuto normalizzare il sistema (cioè, ancora una volta, deradicalizzarlo). Ma questo appunto avrebbe presupposto la presenza di un elettorato a suo modo moderato e ragionevole anche a sinistra, che puntasse sull’alternativa possibile e non (almeno a parole) ad una fuoruscita dal sistema. Di converso, a destra l’elettorato non aveva sufficiente cultura liberale per proporre un partito laico, non dico maggioritario, ma abbastanza forte da indurre la Dc ad avere maggior senso dello Stato (che non vuol dire ragion di Stato: di cui invece la Dc certamente non difettava). Anche qui, a destra, la radicalizzazione agiva nel senso di dare la preferenza al partito postfascista, il quale era ben lontano dal rappresentare la destra di cui l’Italia aveva bisogno (una destra conservatrice non ex né post fascista, in grado di contemperare tra loro diverse istanze: valori nazionali e orientamento liberale, imperativi sociali e meritocrazia, cultura delle èlites e sovranità popolare). La destra in Italia poteva essere o cattolica (e quindi risucchiata nel centro e priva di autonomia) o postfascista. Come a sinistra, anche qui dunque si trattava di deradicalizzare la destra. Ma, in questo senso, a sinistra c’era almeno il partito socialista, a destra nulla.

Si capisce dunque che, quando Berlusconi per la prima volta diede vita ad un polo di centro-destra creò effettivamente qualcosa di nuovo nella storia del nostro paese. Sembrò che egli desse volto e presenza a quella destra che finora era risultata assente. Ma fu vera destra? Quel che è certo è che non basta non volere che la sinistra giunga al potere per essere di destra. Ma proprio per questo suo carattere prevalentemente antagonistico la costruzione di Berlusconi venne ad incanalarsi ancora una volta nel vizio di fondo del radicalismo italiano.

Ci si poteva immaginare che di fronte alla crisi della prima repubblica travolta dagli scandali, sorgesse una destra desiderosa di ridare tranquillità al Paese e di ristabilire la dignità dello Stato. Se vi fosse stata una destra non radicale, la sua prima preoccupazione sarebbe stata quella di offrire una nuova classe dirigente allo Stato, una nuova generazione di pubblici servitori. Si è vista mai invece una destra che al loro posto offrisse soubrettes? La destra si è presentata con un volto che era del tutto diverso da quella che la rifondazione dello Stato e dell’etica civile richiedeva. AN, forse la forza politica più sensibile a questo discorso, per formazione subiva comunque il gravame della sua origine di destra radicale (tanto che la scelta di Fini di salvare lo Stato dal radicalismo berlusconiano non ha praticamente trovato seguito nel suo partito).

Le istanze di destra, piuttosto che puntare alla stabilità del sistema ed al ruolo super partes delle istituzioni, ora invece mutuavano dalla sinistra più radicale quel rivendicazionismo che era più consono ad una destra ribellistica e agitatoria che ad una veramente moderata (gli uomini di destra si chiamano moderati perché essi non sono disposti a far valere i loro interessi fino al punto di provocare crisi sistemiche; in questo senso sono dei “realisti” che non mettono in gioco l’autorevolezza delle istituzioni per un bene minore, quale quello degli interessi di parte. “Moderatismo” è dunque senso del limite e delle compatibilità). Si veniva meno così proprio all’unica cosa che ci si aspetta dalle forze di destra, e cioè un’èlite politica in grado di anteporre il bene pubblico agli interessi personali, in grado cioè di dirigere la cosa pubblica con puro spirito di dedizione, identificandosi totalmente con essa. Laddove la destra non arriva a questo risultato (a cui qualche volta la stessa sinistra socialdemocratica perviene), essa ha completamente fallito.

In tutte le sue metamorfosi dunque l’elettorato italiano resta sempre lo stesso. Esse esprime sempre tendenze radicali ed extra-sistemiche, siano esse di sinistra, di centro, di destra o al di là di esse. Quando un ciclo si chiude le stesse tendenze emergono con nuove formazioni politiche. Adesso è la volta di Beppe Grillo, una nuova pagina dell’eterna politica italiana che si rinnova rimanendo sempre uguale. L’inguaribile radicalismo italiano ha trovato il suo nuovo protagonista. Di Pietro, Vendola, Berlusconi, Bossi, ora Beppe Grillo: tutti volti diversi dello stesso italiano che va a votare non per decidere da chi vuole essere governato, ma da chi non vuole esserlo, che concepisce la politica come occasione per scontrarsi, protestare, “far sentire la propria voce”, gridare al lupo o addirittura per esprimere disgusto, e non come un momento per trovare scelte comuni (le migliori possibili, per tutti), anche se da posizioni distinte.

 

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