di Danilo Breschi

Perché ancora destra e sinistra? Perché la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi, o almeno questo si riscontra nella storia d’Italia degli ultimi novant’anni. È quanto meno dall’immediato primo dopoguerra che la lotta politica è scontro belluino, ora armato fino a sfociare in una guerra civile vera e propria, ora virtuale e simulato, incruento o quasi, ma estremamente violento nei toni ed evocativo di ben più feroci intenzioni. Sembra che non si riesca a fuoriuscire da una simile situazione. Quando ciò è accaduto si è dovuto bloccare il sistema politico con un bipartitismo imperfetto, di fatto un meccanismo centripeto.

Perché ancora destra e sinistra sono utili e utilizzate, questo ha inteso di recente spiegare Carlo Galli in un breve saggio (Laterza, 2010), confrontandosi con l’annosa questione. Sempre vivo è l’interrogativo sul perché questa distinzione persista e funzioni ancora e nonostante tutto.

Punto di partenza dell’analisi di Galli è la struttura di pensiero che sarebbe all’origine della modernità occidentale, di quell’epoca forgiatasi tra XVI e XVII secolo, nel bel mezzo di un’Europa dilaniata da guerre civili di religione e monarchie “nazionali” in fase di costruzione e consolidamento. Il primo momento di formazione del cleavage destra/sinistra è all’interno delle lotte borghesi contro l’autorità sia della Chiesa di Roma sia del sovrano tradizionale, in nome del razionalismo e dell’individualismo e secondo una traiettoria intellettuale che va da Hobbes e Locke all’Illuminismo, e da Rousseau a Kant. L’obiettivo di quelle lotte è che «la politica sia lo spazio in cui l’uomo si autogoverna; in cui il potere risponde solo alla ragione umana e non ad altre istanze dogmatiche».

Il secondo momento di formazione è l’epoca della rivoluzione industriale e dell’economia politica, come scienza di supporto e/o di critica del nascente capitalismo. Qui, definitivamente, destra e sinistra configurano lo spazio politico, dividendolo tra chi intende consolidare il capitalismo organizzando la sfera pubblica su base individualistico-rappresentativa (lo Stato di diritto) e chi se ne propone invece il superamento verso economie comunitaristiche o collettivistiche, comunque senza Stato.

Rispetto agli schemi delle teorie la complessità della storia moltiplica le destre e le sinistre. Ma se i contenuti mutano e le fenomenologie storiche sono plurime e diverse, la persistenza nell’uso della dicotomia sino ai giorni nostri – talora con toni persino più accesi che in passato – ne suggerisce una radicalità, nel senso di una presenza di radici conficcate così in profondità nella struttura dell’universo mentale politico occidentale da meritare di essere indagata più a fondo. E così Galli svolge il suo ragionamento che vede fondare la coppia oppositiva destra/sinistra nella stessa scaturigine della politica moderna, ovvero in un pensiero che si orienta secondo un «impianto categoriale» che vede il mondo diviso e connesso, al contempo, tra ordine e disordine.

Il disordine è pensato come dato e l’ordine come esigenza: «da una parte esiste una realtà minacciosa e instabile, lo stato di natura, dall’altra è indispensabile costruire un artificio che dia forma e stabilità alla politica». Questo è, secondo Galli, il modo moderno di guardare alla politica; e da questa “visione” non siamo ancora sostanzialmente usciti. La storia delle idee politiche moderne è perciò una sorta di lunga e travagliata «ricerca dell’ordine politico», oppure «una serie di discorsi sulla costruzione dell’ordine», per dirla con lo stesso Galli.

La distinzione tra destra e sinistra scaturirebbe dunque dalla duplicità originaria del modo moderno di pensare l’origine della politica. Da un lato, le sinistre, pur nella loro diversificazione nel corso della storia moderno-contemporanea occidentale, condividono – sempre secondo Galli – l’idea che la natura umana sia il «Valore da affermare, ugualmente, per tutti». L’impegno teorico e pratico delle sinistre è stato storicamente rivolto ad «assicurare attivamente la libertà del fiorire del soggetto – singolare o collettivo (in comunità liberamente scelte) – in uguale dignità». I riferimenti, immediati, vanno a John Stuart Mill ma anche al giovane Marx.

La sinistra, ovunque e comunque si sia presentata, conterrebbe al suo interno il progetto della liberazione delle soggettività (rigorosamente al plurale) attraverso il ricorso alla politica. L’imprescindibile riferimento è il Rousseau del Contratto sociale: “l’uomo nasce libero, e ovunque è in catene”. Sulla base di queste premesse è evidente che la politica venga chiamata al compito di realizzare un’umanità ancora allo stato latente. Occorre dunque operare sulle istituzioni, ora con il bisturi ora con la clava, ovvero in modo ora riformistico ora rivoluzionario. Questo è, secondo Galli, il Moderno “visto da sinistra”.

A destra, invece, si guarda al Moderno dal lato del disordine come dato strutturale prevalente, anzi primigenio. Il reale è di per sé instabile, anomico, contingente. Galli ritiene che la destra si contraddistingua non per l’assunzione aprioristica di un sistema di valori, il che la connoterebbe come meramente ed esclusivamente conservatrice, se non reazionaria, ma per la convinzione che la realtà non abbia alcun fondamento. L’ordine invocato dalle destre non è dunque né naturale né necessario, e nella natura non «esistono semi di razionalità antropomorfa». Seppur non sempre e solo conservatrici, le destre di Galli sono tutte più o meno convinte del disordine del mondo e della contingenza della politica, e accettano tutto questo. E, ciò affermato, sembra di far rientrare dalla finestra l’abbinamento con il conservatorismo che si è inteso cacciare dalla porta. In ogni caso, la destra di Galli, intesa come media storica di tutte le destre possibili, contiene al suo interno un’idea di infondatezza che la connota come irrimediabilmente nichilista.

Stante il modo in cui Galli imposta il suo ragionamento, le categorie di destra e sinistra resteranno valide, ora con forza ora con relativa debolezza, almeno fino a quando la struttura originaria della politica moderna, «in bilico tra natura e artificio», sarà «consumata e impensabile». Non prima perciò di una svolta antropologica, ancor prima che politologica, in quanto si richiede la totale perdita di centralità della soggettività, a partire dalla quale ogni discorso politico moderno prende forma. L’unica alternativa cui Galli accenna è il cleavage ecologista, o ambientalista; anche se espresso nei termini in cui lo pone, ossia «inquinatori contro ambientalisti», appare poco credibile e richiede ulteriore e migliore definizione. Il sospetto è che anch’esso potrebbe venire facilmente riassorbito, se già non lo è stato, dalla dicotomia destra/sinistra.

Il problema non starà forse nel fatto che la matrice della coppia concettuale destra-sinistra è di stampo religioso, manicheo? e che la sorgente della divisione è polemogena, cioè risieda nella volontà degli uni di prevaricare le ragioni degli altri per dimostrare di avere la verità dalla propria parte? Posta la questione politica in tali termini, sembra davvero dura rimuovere una alternativa – destra o sinistra – che meglio di ogni altra si presta alla battaglia.

“Io di qua, tu di là, e dove sto io la verità è con me”, questa è forse la frase che meglio sintetizza la volontà di dominio mescolata alla volontà di essere nel giusto e nel vero. Non è casuale che tale distinzione sia scaturita dal fuoco dello scontro istituzionale che infiammò la prima fase della Rivoluzione francese, cioè dell’evento spartiacque tra prima e seconda modernità e tra religione e laicità.

La natura meramente ma immediatamente “spaziale” dei due termini, destra e sinistra, si presta più che mai alla bisogna, indicando una collocazione geografica lungo un asse orizzontale che rappresenta meglio di qualsiasi altra immagine il campo di una battaglia, spesso non soltanto metaforica. Da una parte e dall’altra, a destra e a sinistra, ecco comparire i due schieramenti pronti allo scontro mortale.

Il ragionamento di Galli pare sottintendere che l’intima essenza della politica sia l’antitesi amico/nemico, e allora, se così fosse, quali migliori criteri se non quelli evocati dai termini “destra” e “sinistra” potrebbero essere escogitati per sostanziare e orientare l’agire politico?

Trovarne altri presuppone però un mutamento ancora più radicale, ossia un diverso modo di pensare e praticare la politica, dimensione dell’esistenza umana di cui si dovrebbe riuscire a dimostrare la natura non solo aggressiva e conflittuale. Il problema è che quando si è tentato di dimostrare sul piano storico la presenza di un’antropologia originariamente e “naturalmente” buona e costruttiva, che solo la società e le sue istituzioni discriminanti – come la proprietà – corromperebbero, i risultati sono stati devastanti, politicamente e umanamente.

La secolarizzazione ha ormai separato la politica dalla religione e il Novecento europeo ha mostrato come si incorra in un pericolo mortale tentando di surrogare la seconda con la prima. Se si riuscisse anche a separare la politica dal denaro pubblico, almeno a ridurne il nesso, forse la competizione per un potere reso per lo più un onere e una fatica mal retribuita perderebbe la propria veste bellicosa e destra e sinistra potrebbero d’un tratto risultare desueti e inadatti, insomma non servire più alla bisogna. Forse. Oppure, dato che una competizione e un antagonismo comunque non scomparirebbero, la dicotomia spaziale continuerebbe ad essere funzionale ad una rappresentazione di sé e dell’altro, ma non essendo più oggetto del contendere il potere con la P maiuscola potrebbe forse attenuarsi drasticamente, se non proprio scomparire, quell’idea che la politica sia la continuazione della guerra con altri mezzi. Idea quanto mai in voga nella storia d’Italia, e non da ora.