di Alessandro Campi
L’implosione di un non-partito dovrebbe essere un non-notizia, visto che non si può dissolvere ciò che sulla carta non esiste. Ma la cosa cambia trattandosi del M5S, un partito che ha sempre fatto finta, arrivando a crederci, di essere un non-partito: nato per creare una nuova politica e dare tutto il potere ai cittadini, esso ora rischia di scindersi, nello stile della politica più tradizionale e vetusta, per i troppi litigi tra i suoi capi vecchi e nuovi.
I militanti della prima ora assistono sgomenti, i compagni di strada opportunistici già pensano a quale possa essere il prossimo carro sul quale saltare, gli analisi disincantati seguono con malcelata soddisfazione. In fondo, è la storia che si ripete: il potere, oggetto di reprimende quando non lo si possiede, crea appetiti crescenti e tensioni inevitabili quando lo si raggiunge. Perché mai i grillini avrebbero dovuto rappresentare una felice eccezione?
Lo scontro apertosi in questi ultimi giorni tra Beppe Grillo e Alessandro Di Battista, con quest’ultimo che chiede a gran voce un congresso e il primo che lo irride in modo ingeneroso dopo averlo a lungo considerato un suo fedelissimo e potenziale erede, si presta in effetti a diverse interpretazioni. C’è, da non trascurare, una evidente dimensione psico-politica, peraltro anch’essa vecchia come il mondo: il figlio aspirante alla successione che decide di emanciparsi, sino alla rottura traumatica, dal padre-fondatore che non vuole assolutamente mollare il comando oppure vuole consegnarlo a chi dice lui: inevitabile il passaggio dalle parole d’affetto agli insulti in pubblico, dagli attestati di fedeltà alle reciproche accuse di tradimento.
C’è anche, in questo che è uno scontro tra personalità istrioniche, eccentriche, imprevedibili e sopra le righe (non è detto sia un complimento), una dimensione di conflittualità intrinseca che fa parte sin dalle origini del M5S, nato e cresciuto nel tempo grazie al sommarsi fortunato di quattro fattori: l’anarchismo dissacratore e distruttore di Beppe Grillo; il visionarismo ipertecnologico e misticheggiante di Gianroberto Casaleggio; la rabbia sociale di milioni di italiani rimasti strada facendo senza referenti politici e educati per anni alla demagogia anti-casta; il livello zero di legittimità raggiunto dal sistema politico-istituzionale italiano dopo il fallimento di tutti tentativi per riformarlo.
Un’esperienza certamente originale ma nella quale strada facendo sono confluite realtà talmente diverse e contraddittorie (spezzoni dell’estrema sinistra antagonista e schegge della destra populista anti-sistema, transfughi della sinistra istituzionale e del berlusconismo in via di dissoluzione, giovani fanatici della Rete fautori della democrazia diretta e vecchi marpioni dell’affarismo meridionale sempre in cerca di una collocazione politicamente redditizia) da giustificare le periodiche rese dei conti nelle fila del grillismo, dove peraltro sono più d’uno coloro che si considerano i depositari del Verbo originario. Stavolta è toccato a Di Battista presentarsi nei panni del “puro” che richiama tutti al rispetto dei valori autentici del movimento: la cosa strana è che lo abbia fatto anche a costo di andare contro chi ne è stato il fondatore per antonomasia.
Il quale, ecco il punto, negli ultimi tempi ha semplicemente deciso – nella convinzione, non del tutto infondata, di poter indirizzare il M5S secondo la sua esclusiva volontà – di perseguire un nuovo disegno politico: la nascita di un blocco populista progressista capace di egemonizzare l’area della sinistra politica e di guidare l’Italia. Progetto che se da un lato è coerente con quello suo originario (portare il grillismo al potere con l’obiettivo di far fuori tutte le vecchie forze politiche), dall’altro presenta una novità foriera di inevitabili tensioni interne: nessuno degli esponenti storici del movimento è, a suoi occhi, in grado di realizzare tale disegno. Non lo è stato Luigi Di Maio, costretto non a caso a lasciare la guida del partito, non lo è Alessandro Di Battista, che oggi aspirerebbe a conquistarla.
Da quando si è consumata la drastica rottura tra il M5S e la Lega salviniana ed è cominciata la collaborazione al governo con il Partito democratico, l’idea di Grillo è stata quella di irretire quest’ultimo all’interno di una ragnatela politica che, nelle sue intenzioni, dovrebbe finire per svuotarlo elettoralmente e per modificarne il dna politico-ideologico, sino a produrre la nascita di una “sinistra nuova” socialmente e culturalmente modellata sulle istanze, sulle idee-forza e sul linguaggio del grillismo.
Nell’idea di Grillo, l’uomo chiamato a favorire una simile ibridazione, grazie anche al suo profilo solo all’apparenza equidistante tra i due partiti alleati al governo, è stato sin dal primo giorno Giuseppe Conte. Una strategia mimetica di medio periodo che è stata velocizzata e resa evidente dallo scoppio della pandemia. Quest’ultima ha prodotto un’accelerazione inevitabile della dinamica politica. Il credito di Conte, leader solitario durante l’intera emergenza sanitaria, è fortemente cresciuto nel Paese, così come le sue (legittime) ambizioni e la sua forza di condizionamento su tutti coloro che pensavano di tenerlo in pugno o di averlo dalla loro parte. Sino a dare per scontato che per capitalizzare questo crescente consenso possa farsi un partito tutto suo. Ma perché dovrebbe lanciarsi in un’avventura tanto rischiosa quando in realtà ne ha già uno, il M5S, che con lui alla guida potrebbe, sondaggi e annunci alla mano, diventare il primo in Italia?
Oltre a galvanizzare i molti simpatizzanti grillini che già lo adorano, Conte potrebbe portarsi dietro molti di quegli elettori/militanti del Pd (e della sinistra in genere) che in questi mesi di pandemia non hanno fatto altro che lodarlo per la sua conduzione della crisi, sino a denunciare come aggressioni alla persona qualunque critica gli venisse rivolta.
La cosa curiosa di questa strategia grillina (nel senso di Grillo, non del M5S), al di là dei malumori interni di Di Battista e di coloro che con lui in queste ore vanno velatamente minacciando una scissione, è che il partito chiamato a farne oggettivamente le spese – vale a dire il Pd – è lo stesso che sin dal primo momento ha sostenuto l’esperimento del governo giallo-rosso con l’idea, del tutto opposta, di poterne trarre una grande vantaggio elettorale proprio a scapito del M5S. Se Grillo, attraverso Conte nuovo capo del M5S, punta ormai apertamente a prendersi i voti del Pd, quest’ultimo, immaginando un Conte senza partito e un M5S in caduta libera per essere ormai senza una guida politica, pensava a sua volta di potersi prendere i voti del partito di Grillo. Tra i due alleati al governo qualcuno, con ogni evidenza, ha fatto male i propri conteggi.
Il Pd, come dimostra il nervosismo recente di molti suoi dirigenti, sembra aver fiutato la trappola politico-elettorale nella quale potrebbe finire, confermandosi nel suo di portatore d’acqua al servizio dei valori repubblicani. Nel M5S, come dimostra l’alzata di scudi di Di Battista e la sua richiesta di un confronto congressuale per decidere democraticamente chi debba comandarlo, non tutti gradiscono che la guida del partito passi, per volontà non sindacabile di Grillo, ad un esponente a dir poco spurio del grillismo, con tutta la vecchia guardia fatta fuori senza troppi complimenti o messa in secondo piano.
Quanto basta per pensare, senza dirlo apertamente, ad una crisi di governo che fatalmente porterebbe all’indebolimento della figura di Conte. A meno che a salvarlo, va da sé per senso di responsabilità, non arrivi Berlusconi con quel che resta di Forza Italia. Sarebbe la rottura del centrodestra, soprattutto sarebbe la conferma che, almeno nel caso della politica italiana, dopo la pandemia nulla sarà come prima.
Lascia un commento